Ecco cosa ero io, un uccello spennacchiato e pieno di pulci, un uccello col cuore stanco e il becco aperto, il becco aperto in attesa di Isora, delle sue parole, dell’odore di pane biscottato delle punte dei suoi capelli, del marciume nero che c’era sotto le sue unghie a raso come la bassa marea che striscia contro gli scogli.
Panza de burro – Pancia d’asino – è un’espressione tipica degli abitanti delle Isole Canarie con la quale si definisce un particolare fenomeno meteorologico tipico del nord dell’isola di Tenerife, lungo i versanti del vulcano Teide, che si verifica quando i venti alisei spingono le nuvole verso le pendici del monte, creando così un mantello di nuvole basse – il mar de nubes – che, visto da sotto, ricorda, appunto, il colore dei peli grigi sulle pance degli asini. Un fenomeno che genera un’atmosfera caratteristica, come stare dentro a una bolla e che, isolando la terra del cielo, rende l’isola un luogo estraneo al resto del mondo, provocando una sensazione, spesso costante, di stanchezza e spossatezza.
Pancia d’Asino è il titolo che Andrea Abreu, ventiseienne giornalista e narratrice canarina, ha dato al suo primo romanzo, pubblicato il 15 aprile del 2020, e presto diventato un caso editoriale nel mondo della letteratura in lingua spagnola, pubblicato oggi in Italia da Ponte alle Grazie.
Nata nel 1995 proprio sull’isola di Tenerife, Abreu esordisce – poco più che ventenne – nel 2017, prima con la raccolta di poesie Mujer sin párpados, quindi nello stesso anno con la fanzine Primavera que sangre. Vincitrice due anni più tardi del secondo Premio Ana María Matute per il racconto I movimenti delle piante, Abreu frequenta – come regalo della compagna – il corso di scrittura creativa della scrittrice e giornalista Sabina Urraca che – basca di San Sebastián, ma profondamente legata agli anni d’infanzia trascorsi alle Canarie – resta colpita dal progetto della giovane Andrea, accompagnandola nella pubblicazione con la casa editrice Barrett all’interno della collana “Editor/a por un libro” curando lei stessa la redazione del romanzo.
La storia di Pancia d’Asino è una storia apparentemente semplice: in un’imprecisata estate agli inizi degli anni duemila, due bambine di dieci, undici anni – la voce narrante dell’intera storia e la sua migliore amica, Isora – trascorrono il tempo in attesa dell’inizio del nuovo anno scolastico. Sono due ragazzine di un piccolo barrio , dai confini precisi e angusti, quasi verticali: da una parte il vulcano, dall’altro la casa di doña Carmen, l’ultima del barrio, avamposto dell’estremo limite del loro piccolissimo mondo. Isora non ha madre e vive con la nonna, proprietaria di un piccolo negozio di alimentari. Anche la protagonista vive con la nonna, perché sua madre è sempre fuori casa a gestire i “griturismi” che, sull’isola, ospitano con ogni confort i turisti ricchi occidentali. Isora è una ragazzina già proiettata verso l’adolescenza, apparentemente più decisa e più forte che pure, però, non nasconde problemi di disordine alimentare. La sua amica è, invece, più bambina, più debole e di Isora subisce il fascino e l’attrazione in un meccanismo costante di simbiosi, ammirazione, condivisione e piccole invidie.
Mi ricordai del modo in cui Isora mangiava le coscette di nonna, del modo in cui apriva e chiudeva la bocca come un cane malconcio, un cane perso nel bosco che non mangia da settimane e ingoia la roba marcia della spazzatura senza masticare. Isora mangiava facendo un rumore fortissimo, i suoi denti erano piedi che calpestavano le alghe di uno stagno vuoto.
La panza de burro che grava sulle loro teste non solo appare come un tetto asfissiante che ne riduce ancora di più sogni e ambizioni, ma si fa presto metafora fisica di un’oppressione diversa che condiziona entrambe le bambine: la povertà del barrio e delle loro famiglie, una vita quasi mendicata, un’evasione apparentemente irrealizzabile che passa per le canzoni dei gruppi popolari delle isole, tra bachate e reggaeton, la voglia e l’istinto di diventare grandi senza neppur sapere come, la sessualità acerba e confusa che le spinge l’una verso l’altra e che si scontra contro il desiderio maschile di altri ragazzini; tutto nell’estate che le vedrà non più bambine e non ancora donne e che cambierà i loro destini.
Ciò che rende straordinario Pancia d’Asino – ancora di più se si pensa alla giovanissima autrice – è il modo in cui questa storia – e il suo divenire – vengono raccontati sulla pagina scritta. Abreu, infatti, rivoluziona letteralmente la tradizione della letteratura spagnola costruendo un romanzo che non solo utilizza el español de Canarias o el habla canaria – dialetto spagnolo, simile a quello delle isole caraibiche, una variante insulare del castellano – naturalmente considerata lingua a tutti gli effetti dagli abitanti delle Canarie – ma, soprattutto, dando corpo a un romanzo che ha l’ambizione di trasferire sulla pagina scritta i modi, i tempi, le pause, i ritmi, la musicalità – tutti gli errori, perché no? – del linguaggio parlato, concedendo, così, vita e spazio a una lingua letteraria e orale a un tempo che, pagina dopo pagina, esplode tra le labbra e che sa trasmettere un senso inesplorato di freschezza e semplicità; un linguaggio spurio che fa leva tanto su molti termini autoctoni, quanto su deliziose e divertenti storpiature dello spagnolo come della lingua inglese cui comunque le ragazzine – figlie insieme del barrio e della modernità – sono naturalmente esposte.
Un elemento – quello della lingua – certamente centrale nell’opera originale, che qui è reso splendidamente grazie alla traduzione della sempre eccellente Ilide Carmignani (voce italiana del Bolaño del catalogo Adelphi e di quelle del suo amico – scomparso poco più di un anno fa – Luis Sepúlveda, per Guanda) che – per Panza de Burro – fa un lavoro enorme di trasposizione in italiano di un mondo linguistico così particolare, abilissima a giocare – lei stessa – con la nostra lingua e attenta a lasciare intonsi termini originali – lì dove semplicemente intraducibili o perché conscia del loro potere magico ed evocativo. Ed è proprio a Ilide Carmignani che devo la scoperta di Panza de Burro, per un suo post estivo in cui si lasciava fotografare con sei giovani scrittrici spagnole in vacanza in Italia, incontrate per caso in una piccola libreria alle pendici degli Appennini lucchesi. Una delle ragazze aveva nello zaino proprio il libro di Abreu che Ilide stava traducendo negli stessi giorni.
Quando piangevamo ci piaceva giocare a girare in tondo fino a avere le vertigini. Ci tenevamo per le spalle e cascavamo per terra graffiandoci le mani, i gomiti, gli stinchi. Poi ci leccavamo il sangue con la lingua, come quando nonno, prima di andarsene per sempre con la tedesca e lasciare nonna con tutti i debiti, mi raccontò che sant’Antonio aveva un cane che quando era lì lì per morire gli aveva curato le ferite. Io sognavo di curare la tristezza a Isora, volevo essere il suo cane e lei la mia santa coi ginocchi feriti.
Quella fotografia raccontava di uno splendido universo femminile che – in Pancia d’Asino – è l’altro elemento peculiare del romanzo. Il lavoro sulla lingua, infatti, non sarebbe altro che un mero esercizio di stile se non accompagnasse una storia la cui dirompenza linguistica è specchio della forza espressiva di due bambine che vivono la loro condizione di future donne con l’assoluta naturalezza dell’istinto, che determinano la loro esistenza e si autodeterminano nelle scelte che compiono, nei pensieri che le attraversano, nelle emozioni e negli istinti pur confusi che provano. Isora, soprattutto, è l’espressione di una femminilità già indipendente; piccola filosofa anarchica devota al principio che “la vita è una sola e lei pensava che almeno un fisquito bisognava assaggiarla. Solo un fisquito, diceva” (ed è una scelta meravigliosa quella di non tradurre un termine così tipicamente canario che si ficca allegramente nella testa per l’intera lettura) sorta di mauvaise maîtresse nella sua eccezione migliore e più libertaria, che apre alla sua amica la conoscenza di sé, del piacere fisico da condividere, da esplorare insieme senza preconcetti, senza pregiudizi, abbattendo – con la sua strafottenza, la sua opulenza fisica, i suoi problemi alimentari, la sua tracotanza ribelle – secoli di oppressione femminile, di sudditanza, di attesa dell’altro. Isora come dice la stessa Ilide Carmignani è “un’amica tiranna, amata e ammirata fino all’odio” e proprio per questo diventa, per la voce narrante, il primo metro estraneo alla famiglia su cui misurare se stessa, da imitare prima per poi staccarsene, alla ricerca di una consapevolezza di sé che rappresenta la sola via di fuga, dal barrio, dalle nuvole opprimenti, dal suo stesso corpo.
Pancia d’Asino funziona come un meraviglioso congegno capace, com’è, di scardinare le regole della narrazione; un meccanismo che gioca – non esiste termine migliore – con la lingua, con la sintassi, con la punteggiatura per reinventare la vita di due bambine attraverso le quali poter raccontare la povertà di un’isola, l’emarginazione, l’onda lunga del colonialismo (Abreu ricorda, in diverse interviste, come – a differenza dei paesi ispanici latinoamericani – le Canarie rappresentano tuttora un rimosso della coscienza spagnola), la condizione femminile trasversale a epoche e latitudini diverse.
La voce narrante non ha nome. Abreu spiega come questa scelta nasca dal voler evitare il rischio di una facile identificazione con se stessa, che pure ha messo tanto di sé nella ragazzina, in qualche modo priva di personalità che si specchia fino a innamorarsene in qualche modo – e, come tutti gli amori estivi, anche questo è destinato a finire – che cresce per imitazione, ma che dentro quell’imitazione forse sarà capace di trovare se non le risposte, certamente le domande attraverso cui crescere.
Alla fine del barrio, in alto, cominciavano a nascere case come tartufi sotto gli aghi di pino quando la pioggia bagna la sabbia. Cominciavano a nascere dalla terra le prime case del barrio accanto ai pini sui fianchi del vulcano, il vulcán lo chiamava nonna, e diceva i fianchi come se il vulcano fosse Shakira. Le ultime case del barrio, in alto, avevano i tetti e le terrazze piene di pigne e spesso sembravano case abitate da streghe e folletti invece che persone.
Il barrio del romanzo è ispirato a Los piquetes, nella parte alta di Tenerife ed è, a sua volta, non solo lo scenario che fa da cornice agli eventi ma un protagonista assoluto, un paesaggio vivo su cui – di là dal mare di nuvole – s’erge minaccioso un vulcano attivo, non un presentimento piuttosto un ammonimento di morte, familiare solo a chi sotto un vulcano ci vive e ben sa che quel fuoco può essere tanto il sigillo di una distruzione terribile quanto la scintilla primordiale di ogni istinto vitale. Un vulcano protetto dalla sua pancia che incute timore e che protegge e per questo – nelle parole di Abreu – più mamá Teide che padre.
Pancia d’asino è un romanzo feroce – come la ferocia del mondo dentro cui si muovono le sue protagoniste, come la ferocia di Isora, quella dell’assenza delle figure materne da un lato e quella invece più che presente e tangibile di nonne che – in una trasfigurazione fiabesca – somigliano alle streghe dei racconti per i più piccoli. Realtà e mistero che si mescolano dentro e fuori dai corpi, tra pendii scoscesi e fichi d’india, cieli inaccessibili velati di tristezza – “la tristezza della gente del barrio erano le nubi, le nubi piantate sulla collottola, sulla cima della colonna vertebrale, all’ora della telenovela”. E le due protagoniste rispondono per riflesso alla ferocia con un atteggiamento privo di pudori, con un linguaggio selvaggio e sboccato, con una sessualità così immatura eppure già così violentemente ferina.
Pancia d’Asino è come il grido di chi ha voglia di far sentire la propria voce, di smarcarsi da un passato opprimente e da un presente appannato. Dietro le ferite che hanno segnato le due ragazzine, si nascondono quelle di un’intera terra, prima vittima di un genocidio – quello del pueblo Guanche – del colonialismo poi, infine di una condizione attuale che ancora vede da parte della Spagna continentale le Isole Canarie sacrificate alla vocazione di un paradiso turistico, di una servitù al piacere altrui.
Ennesimo merito di una scrittrice così giovane e già così determinata, è l’aver regalato ai lettori un libro leggero nella forma quanto profondo nei contenuti: sociali, politici, letterari. Panza de burro è a suo modo un libro autenticamente rivoluzionario, nel linguaggio, nella forma, nel coraggio, nel messaggio che lancia ponendolo sempre – e come sempre la letteratura deve fare – al servizio di una storia e del suo racconto. È un esordio – stupendo – ed è davvero un piacere esserne testimoni.