Cos’è il potere, come si manifesta, quali sono le sue facce, le sue radici, quale il rapporto con l’uomo comune. Sembra essere questo il tema centrale dell’opera del quarantenne regista cileno Pablo Larraín. In Cile nominare il potere conduce verso un unico grande e terribile passaggio storico: il colpo di stato del 1973 che portò a una tra le dittature più spietate che hanno sconvolto il continente sudamericano. Eppure Larraín, attraverso sette lungometraggi in poco più di dieci anni, è riuscito a condurre una sua personale indagine riuscendo a slegarla dal regime del generalissimo dagli occhi azzurri, una ricerca più profonda e più sottile capace di coinvolgere, in un orizzonte più ampio, non solo la politica tutta del suo paese, ma anche il clero, i mass media, la letteratura fino ad attraversare l’America Centrale per ritrovarsi a Dallas il giorno dell’assassinio di J.F. Kennedy.
Non ci si deve però lasciar ingannare: quello di Larraín è un cinema lontanissimo da quello impregnato d’ideali, d’impegno e valor civile cui certi autori, soprattutto degli anni settanta, ci hanno abituati. Il suo è uno sguardo molto più vicino a quello della ricerca storiografica che a quello della polemica politica, più vicino alla comprensione delle cause dei fenomeni che alla ricerca spasmodica di uno schieramento entro le cui fila sentirsi riconosciuto. E, cosa ben più importante, il suo è uno sguardo di pura cinematografia che parte, sì, dalla Storia e dalle storie, ma trova sua unica espressione e rappresentazione all’interno di un linguaggio cinematografico di ricerca che diventa così la vera cifra stilistica del suo modo di raccontare, immaginifico e impegnato al medesimo tempo.
La sua opera prima, Fuga del 2006, sembra però rifuggire addirittura dal passato politico del suo paese. Fuga è, in realtà, un’opera acerba che ha poco da condividere con tutta la sua produzione successiva. È un film per certi aspetti accademico che risente di un’impostazione letteraria con la storia di un pianista e compositore geniale morto suicida in preda alla follia e al dolore per la scomparsa della sorella. Una cornice contemporanea, con un mediocre musicista che ritrova e cerca di ricomporre i pezzi mancanti del concerto per pianoforte, completa la messa in scena. Il talento è da subito evidente, al netto di qualche ragionevole ingenuità di un’opera prima che cerca di farsi, come accade sempre, universo mondo. Ma è una storia che rimane nella memoria grazie anche alle interpretazioni del protagonista, Benjamín Vicuña, e soprattutto di un attore cileno, qui internato in un manicomio perché omosessuale: Alfredo Castro, che accompagnerà Larraín in tutta la sua produzione in terra cilena (Castro, grande attore di teatro, al di fuori del cinema di Larraín va ricordato almeno per la sua interpretazione in Desde Allá, Leone d’Oro 2015 a Venezia) al punto da diventare suo vero e proprio attore feticcio. La pazzia, il passato, un senso costante di oppressione e di smarrimento sono certamente temi che faranno parte dello spettro delle emozioni e dei temi che percorreranno la spina dorsale delle sue opere successive ma Fuga, quasi a ogni livello, tiene fuori la storia politica del suo paese. Il film è un fallimento, soprattutto di critica, che a Larraín sembra però non perdonare, più che uno scarso talento, l’appartenenza a una famiglia che è un tutt’uno con la storia politica del Cile.
Pablo Larraín © Tawni Bannister for The New York Times
Pablo Larraín è, infatti, rampollo di una delle più importanti famiglie politiche della destra cilena: quella dei Larraín/Matte. Entrambi i genitori hanno ricoperto cariche importanti nell’Unión Demócrata Independiente (UDI), partito nato nel 1983 per opera di Jaime Guzmán, in precedenza fondatore (nel 1968) del Movimento Gremialista Universitario che si oppose al governo democraticamente eletto di Salvador Allende e che sostenne tanto il golpe del 1973 quanto il successivo regime di Augusto Pinochet (Guzmán pur non prendendo parte, con incarichi ufficiali, alla dittatura fu uno dei principali redattori della nuova costituzione liberticida e autore di moltissimi discorsi di Pinochet). Al referendum del 1988 l’UDI, pur essendo da un anno confluita nel partito Renovación Nacional, mantenne una sua indipendenza che la portò a schierarsi apertamente al fianco del Generale.
Inoltre suo padre, Hernán Larraín, avvocato, docente universitario e senatore dal 1994 per UDI, della quale è stato per due volte presidente nonché Presidente del Senato dal 2004 al 2005, si è distinto per essere stato tra i più strenui difensori della Colonia Dignidad (al centro del film Colonia di Florian Gallenberger con Emma Watson e Daniel Brühl) fondata da immigrati tedeschi al comando del carismatico e controverso leader Paul Schäfer, accusato, negli anni, non solo di reati gravissimi per la complicità con le torture del regime ma anche per vicende poco chiare legate ad abusi sessuali, anche su minori, e rapporti con il nazismo (si sospetta abbia ospitato addirittura Josef Mengele).
Sua madre, invece, Magdalena Matte, ingegnere, imprenditrice, nonché ministro durante il governo del presidente Sebastián Piñera dal 2010 al 2011, ha tra i suoi avi Arturo Alessandri, Presidente del Cile dal 1920 al 1925 e ancora dal 1932 al 1938, Jorge Alessandri, Primo Ministro dal 1958 al 1964 e Arturo Matte Larraín, senatore e ministro cileno negli anni ’40.
Pablo Larraín non è, dunque, figlio di comunisti, non ha desaparecidos da piangere, non ha familiari che hanno conosciuto torture e vessazioni, non sa cosa sia la clandestinità ma, a partire dalla sua condizione privilegiata, ha saputo sviluppare una visione critica che lo colloca sicuramente al di fuori delle idee familiari dalle quali non cerca né approvazione né tantomeno confronto. E sembra quasi che quest’atipicità, questo essersi trovato dalla parte vincente, eppure sbagliata, della storia abbia permesso a Larraín di sviluppare una visione così peculiare e indipendente delle cose.
Larraín è sicuramente un uomo di sinistra, di una sinistra che non esiste più nemmeno nel suo paese. Da tale prospettiva, il suo approccio alla Storia e alle storie diventa allora quasi quello di un archeologo che cerca il momento preciso in cui qualcosa si è irrimediabilmente spezzato. La sua preoccupazione di uomo e d’intellettuale si rivolge a quella che potrebbe essere sintetizzata come l’egemonia di una Internazionale Capitalista e Consumista cui la dittatura cilena ha preparato il campo.
Ma tutto questo non entra in maniera esplicita all’interno dei suoi film. Ed è proprio in questa piega che viene fuori la sua libertà di artista, il non dover soccombere alla pantomima di un regista barricadiero, il suo non aver bisogno di cavalcare un’onda revanscista e rivoluzionaria che pure il Sudamerica sembra aver troppo spesso richiesto ai propri artisti. I film di Larraín nascono dall’esigenza di comprendere come fatti gravissimi siano potuti accadere, quale riflesso abbiano avuto sulla vita del paese ma ancora di più sulla storia personale di chi in quel paese è nato e vissuto. Sono in qualche modo la messa in scena di un meccanismo di comprensione di avvenimenti importanti su cui il regista sente forte il bisogno di riflettere fuori dagli stretti panni di un impegno civile la cui assenza gli concede una libertà di pensiero e di azione cinematografica assolutamente rare.
L’essere figlio di quella famiglia gli ha attratto, soprattutto dopo la prima prova, aspre critiche da parte della destra come un figlio rinnegato e dalla sinistra come figlio macchiato delle colpe dei padri.
Ora, che cos’è un anarchico? È una persona indignata nei confronti dell’ingiustizia di essere nati, noi, socialmente diversi — in fondo è solo questo. E da questo deriva, come si vedrà, la rivolta contro le convenzioni sociali che rendono possibile questa disuguaglianza. Quello che le sto mostrando adesso è il percorso psicologico, cioè come si diventa anarchici.
(Fernando Pessoa, Il Banchiere Anarchico, 1922)
In una certa misura, come ne Il banchiere anarchico di Pessoa, Pablo Larraín, grazie alla ricchezza che ha alle spalle, ha potuto permettersi la sua libertà. E di là dal sollevare una questione morale ed etica, è difficile non pensare a una situazione analoga a colui, cioè, che è stato, senza dubbio, uno dei più grandi riformatori dell’arte cinematografica: Jean-Luc Godard, figlio, a sua volta, di una ricchissima famiglia protestante svizzera. Come Godard, Larraín ha frequentato college esclusivi, come Godard, pur non cercando certamente una rivoluzione della sintassi e della grammatica cinematografica, Larraín esaurisce, per così dire la sua espressione dentro la propria opera, spazio di libertà assoluta che diventa in qualche modo unico e solo confronto pubblico per le proprie idee.
E del resto per godere della massima libertà possibile e garantire alle sue opere la più totale indipendenza, Larraín fin dagli esordi auto produce i suoi film attraverso la compagnia di produzione Fabula fondata con i fratelli Hernán e Juan de Dios e il cugino Hernán Rodríguez Matte.
Alfredo Castro in Tony Manero
Dopo l’esordio di Fuga, il discorso sul Cile inizia con Tony Manero (2008) che si rivelerà il primo film di quella che, anche se atipicamente, può essere considerata una trilogia della morte o del potere cileno. Santiago del Cile, 1978: cinque anni dopo la dittatura, il cinquantenne Raúl Peralta vive inseguendo un sogno, quello che rivede di continuo sullo schermo di un cinema: il personaggio interpretato da John Travolta ne La febbre del sabato sera. Quella di Raúl, che ha l’espressione vitrea e il corpo nervoso di Alfredo Castro, si rivelerà ben presto un’ossessione che divora un personaggio meschino, oscuro, impotente e violento. È un film cupo che gioca solo fino a un certo punto col grottesco grazie a un’interpretazione magistrale. Inizia da qui, da Tony Manero, lo sguardo “altro” che sarà la cifra del suo cinema. È dal sottosuolo in cui Raul è costretto a vivere, metafora nemmeno così velata di un Cile sprofondato nell’orrore della dittatura, che emerge la visione di un paese disperato e violento, che cerca (invano, come mostrerà il finale) di immaginarsi altro da ciò che è. La sconfitta di Raúl è l’impossibilità del raggiungimento del sogno americano per un paese tenuto sotto scacco dalla dittatura e già irrimediabilmente diretto verso il consumismo e il capitalismo yankee.
Alfredo Castro in Post Mortem
Post Mortem del 2010, secondo capitolo della trilogia, ritrova ancora Alfredo Castro e fa un passo indietro di tre anni: siamo proprio, infatti, all’alba dell’11 settembre del 1973. Castro è, stavolta, Mario Cornejo, un impiegato della morgue di Santiago che si occupa della trascrizione delle autopsie che vengono eseguite. Improvvisamente la Storia irrompe con violenza nella sua vita. La morgue inizia a essere invasa da decine di cadaveri strappati alle strade e da quello ben più ingombrante politicamente di Salvador Allende con il cranio spappolato da un colpo di fucile AK-47 (immagine che rievoca la morte di Kennedy di dieci anni prima e tornerà in Jackie sei anni dopo). Ma Cornejo ha un solo pensiero, ritrovare Nancy (Antonia Zegers, moglie del regista) ambigua ballerina e vicina di casa che è scomparsa quella stessa mattina (e che scopriremo essersi nascosta perché facente parte di una famiglia comunista). Come in Tony Manero anche qui il racconto e la messa in scena si fanno disturbanti, soprattutto per merito dello spaesamento di Cornejo, della catatonia che sembra afferrarlo dinanzi all’orrore e che lo trascinerà verso un epilogo tragico.
Ancora una volta sono soprattutto le scelte artistiche di Larraín a colpire, a partire da quelle squisitamente tecniche: dal formato con un rapporto di 2.66:1 (molto più stretto di un classico 16:9) che schiaccia l’immagine aumentando il senso di claustrofobia negli ambienti chiusi e quello di angoscia e disperazione davanti alle strade deserte sotto il coprifuoco militare, all’utilizzo di lenti Lomo, quelle usate dalle cinematografie sovietiche e care a un’artista della luce come Andrej Tarkovskij (e Larraín si confermerà, lungo la sua carriera, un regista molto attento alle luci dei suoi film) affidate alla maestria del direttore della fotografia Sergio Armstrong. In più le lenti Lomo erano fatte per pellicole a 35 mm mentre Larraín nel film preferisce adoperare una pellicola più piccola a 16 mm utilizzando (come se non bastasse) una luce “naturale” attraverso un’illuminazione con lampadine sul soffitto. Anche questo si rivelerà un elemento fondamentale del suo cinema, quest’attenzione alla dimensione della realizzazione artigianale, una fuga come lui stesso avrà modo di dire “dalla dittatura dell’alta definizione” e un ritorno alla struttura materica della pellicola, a raccontare con la luce: un punto, questo, che si farà ancora più audace nei lavori successivi.
Ma il cinema di Larraín è anche un film di simboli e di metafore: l’autopsia del corpo di Salvador Allende diventa l’autopsia dell’intero Cile, quello di Cornejo lo sguardo dell’uomo comune attraverso cui filtrare il mistero del Golpe. Perché come di ce lo stesso Larraín nonostante le ricerche “più si scava in quel periodo più ce ne si allontana”.
Post Mortem non smorza certo le pesanti critiche dagli ambienti di destra cui Larraín risponde a tono accusandoli di avere ben poco interesse per la cultura e di essere, di fatto, ignoranti. Molto diverse sono invece le parole che ha nei confronti del padre cui riconosce, comunque, di aver cresciuto un figlio capace di pensare con la propria testa pur su fronti ormai evidentemente opposti.
Del potere, fin dai primi lavori, dunque, Larraín sembra particolarmente interessato a esplorare i confini, le zone d’ombra, le grandi, vastissime aree di ambiguità. I suoi personaggi sfuggono a qualsivoglia logica manichea e non certo perché il Golpe non abbia rappresentato un punto di non ritorno ma proprio perché Larraín, con occhio attento, è consapevole di come quell’eredità così pesante non sia mai stata rifiutata e che, anzi, momenti storici del paese, celebrati come una vittoria, siano stati in realtà il proseguimento di un percorso che è stato inarrestabile.
Gael García Bernal in No
Al centro di questo discorso si colloca tutta la storia raccontata da No (in Italia No – I giorni dell’Arcobaleno) che lo vede al lavoro con la prima vera star del suo cinema, Gael García Bernal nei panni del pubblicitario che al referendum del 1988, indotto per riconfermare la presidenza Pinochet, curò la campagna per il No, aprendo le porte a nuove elezioni. In un’opera che è uno straordinario intreccio d’immagini di repertorio e di materiale naturalmente di finzione, sovrapposti però in maniera perfetta grazie all’utilizzo di camere e pellicole originali del tempo (nastri U-matic, progenitori delle VHS), con un 4:3 a voler dare quasi la percezione di un documentario, Larraín ci conduce in maniera sempre sottile, accennata e mai urlata dentro i meccanismi che portarono sicuramente alla fine del regime sanguinario ma che, contemporaneamente, segnarono la strada verso un’imposizione del capitalismo e del consumismo. Sul viso, tetro e bellissimo, di Bernal in una delle ultime inquadrature non c’è alcuna gioia, nulla che assomigli a un ottuso spirito da magnifiche sorti e progressive. Il film sarà ancora criticato da destra e non mancheranno, all’occasione, critiche da sinistra che lo accuseranno di aver banalizzato il referendum e di aver lasciato da parte la componente sociale dietro quella pubblicitaria. Larraín poco se ne cura, del resto non ricerca il consenso e non pretende dai suoi film altro che essere la visione di un autore sui fatti del proprio paese, non testi di storia, non documenti incontrovertibili ma scintille accese su una memoria che è necessario recuperare.
No è, in un certo modo, il capitolo conclusivo della trilogia politica, capace di osservare il Golpe da prospettive inedite e, del resto, è proprio l’alterità dello sguardo umano e cinematografico a fare di Larraín un regista assolutamente originale nel panorama del cinema contemporaneo. Lì dove Post Mortem era il cuore del Golpe e di un paese quasi anestetizzato dalla paura e da quei corpi ammassati nelle corsie dei reparti autoptici, mentre Tony Manero raccontava invece il periodo successivo attraverso la violenza banale, nascosta e dirompente di un mito americano impotente, NO è lo sbocco finale che apre le porte a una nuova destra che non può nascondersi dietro una semplice rinfrescata di vernice e che tocca direttamente la sua famiglia. Ma è proprio dopo la conclusione della trilogia che Larraín regala al suo paese e al pubblico il suo capolavoro: El Club.
Roberto Farías e Marcelo Alonso in una scena di El Club
El Club, del 2015, è, infatti, il capolavoro etico ed estetico di Larraín: opera immaginifica, disturbante, totalizzante che si fa riflessione tra le più profonde sul peccato, sulla punizione, sulla responsabilità e sull’assoluzione. El Club racconta la storia di quattro preti che sono stati destinati a scontare in qualche modo le loro colpe in una casa sul mare. Siamo in territorio della Chiesa, fuori dalla legge dello Stato. Gioco d’azzardo, connivenza col regime, abusi, vendita di bambini strappati alle loro madri: durissimi sono i peccati di cui si sono macchiati i quattro preti. L’arrivo di un quinto prete, padre Lazcano, porta con sé anche il suo peccato in carne ed ossa, un uomo ormai adulto, chiamato Sandokan, che sotto le finestre di quella casa intonerà una cantilena sconvolgente in cui, con infantile innocenza, racconterà ogni sevizia subita dal prete. Quella di Sandokan (Roberto Farías) è un’apparizione devastante e disturbante non solo per i “reclusi” della casa, ma per lo spettatore in sala: è un lamento, un grido di dolore lancinante che scava dentro le coscienze, che fa sentire sporchi per le colpe degli altri. È la chiave che apre la storia e la farà precipitare ancora una volta tra doveri e punizioni, fra sentimenti e azioni inconfessabili, tra zone d’ombra e domande che restano, com’è inevitabile che sia, inevase.
Girato sulla costa cilena, a La Boca, con una fotografia straordinaria e mozzafiato, virata sulle tonalità plumbee del blu e dell’azzurro, con l’uso di grandangoli deformanti, affidata ancora a Sergio Armstrong, El Club è un’esperienza visiva indimenticabile. Larraín sceglie di lavorare quasi improvvisando, non preoccupandosi del trucco degli attori, consegnando a ciascuno le proprie battute solo prima di ogni scena, aumentando così il senso di angoscia, di sgomento che pervade i protagonisti e lo spettatore. Un’opera coerente, dura, granitica che nulla concede al piacere dello spettatore, alle sue attese, alle sue aspettative: estetiche, etiche e morali. L’opera in definitiva di un regista indipendente che ha per solo padrone il suo solo talento e la sua propria visione.
El Club è sicuramente il suo miglior film fino ad oggi è allo stesso tempo una delle poche, pochissime opere, imprescindibili del cinema contemporaneo. Per quanto radicato ancora, com’è giusto che sia, dentro i confini del proprio paese e della sua storia, El Club riesce a dare voce a temi universali e senza tempo. È una voce che s’innalza verso l’alto, come quella della cantilena inquietante e raccapricciante di Sandokan, un’opera che lambisce nuovamente Dostoevskij e si fa analisi ricca di rimandi, di segni e di aperture a possibili interpretazioni sul senso di colpa, sui meccanismi del potere (ecclesiastico), sulla sua capacità (in questo caso altissima) di sopravvivere a se stesso. È un film senza speranza, cupissimo, che affonda nel baratro del potere che si autoassolve di là dalla giustizia.
In El Club, ancor più che negli altri film, ogni giudizio è sospeso. Larraín rifugge tanto da figurine bidimensionali quanto da personaggi granitici. Anche quando assurgono a simboli, sono sempre avvolti da sfumature che lasciano l’eventuale scelta del giudizio a chi è in sala a guardare il film.
Dopo El Club, Larraín rivolge il suo sguardo non più al potere in quanto tale ma alla sua costruzione e lo fa con due biopic che riscrivono in qualche modo le regole stesse di questa forma cinematografica. Lo fa con due film usciti entrambi nel 2016 con due produzioni diversissime, la prima cilena con accanto ancora Gael García Bernal e Alfredo Castro, la seconda, statunitense, sui giorni immediatamente successivi all’omicidio di J.F. Kennedy.
Entrambi i film, pur nelle loro rispettive peculiarità, sono una profonda riflessione sul potere della narrazione. Larraín non trema e non retrocede nemmeno davanti a due icone del novecento.
Luis Gnecco in Neruda
Neruda (2016) è la storia dello scrittore e poeta cileno costretto all’esilio dal dittatore Videla. Jackie (ancora 2016) quella della costruzione del mito di JFK grazie all’opera della vedova Jacqueline Lee Bouvier. In entrambi i film, Larraín riflette, all’interno dei meccanismi d’invenzione e verosimiglianza, sull’importanza del racconto da tramandare ai posteri. Nel rapporto tra grandezza dell’immaginazione e povertà della macchina burocratica (quella repressiva della polizia al soldo di Videla, nel personaggio straordinario di Óscar Peluchonneau, un ancora magistrale Bernal, che esiste soltanto grazie ai tratti che gli disegna addosso il poeta in fuga in Neruda, e la corte di politici che cercano di tenere fuori dal ricordo del marito la sola persona (Natalie Portman) che è, invece, in grado di costruirne il mito, in Jackie) ancora una volta Larraín non si piega ai compromessi. Non ci sono santini, né genuflessioni davanti al poeta cileno, colto, anzi, in tutte le sue debolezze di uomo, dalla sua vanità alla passione per le donne, dal continuo bisogno di alimentare il proprio ego all’ambiguità di un privilegiato aderente alle lotte socialiste e comuniste, così come d’altro canto, in Jackie, non ci sono spiriti revanscisti nei confronti del nemico americano, dell’impero del capitalismo, di quegli Stati Uniti che già in quegli anni minavano la possibilità reale di crescita del grande continente sudamericano.
Neruda è un film costruito sul sogno, sull’idea ambiziosa che rendere omaggio al poeta significhi realizzare un film come fosse una sua poesia, che rendere onore significhi sempre e comunque non costruire santini ma rifuggire dall’agiografia e che, compito del cinema, come di tutta l’arte, sia porre domande senza offrire risposte. Girato ancora una volta magistralmente con un uso del colore che oggi ha eguali solo nel maestro russo Aleksandr Sokurov, Neruda è un film in chiaroscuro: Sergio Armstrong sembra impastare la grana cinematografica con il pulviscolo che entra in case assolate o in penombra, con il fumo delle sigarette, con la sabbia del deserto che si alza al passaggio dell’auto in fuga come in un road movie americano degli anni cinquanta.
Nel nucleo di Jackie, ancora più che nei film precedenti, c’è proprio il rapporto, strettissimo, tra i fatti e la narrazione di chi li racconta. Se già in Neruda, Larraín sceglie la strada del pastiche di generi offrendo un meta-racconto tra il regista e il suo personaggio, qui il cortocircuito è ancora più forte: da una parte l’autore che racconta una storia, dall’altra la protagonista che di quella storia vuole scrivere la Storia. Così Jackie si trasfigura in uno straordinario affresco, minimale, privato e pubblico, sul tema dell’eredità, della memoria e della costruzione del Mito. Il tentativo di una donna forte e fragile nello stesso tempo, capace, nel momento più terribile della sua vita, di ricordare che la storia è una questione di narrazione e con quell’idea costruisce in un’intervista brevissima di appena due pagine su LIFE il mito da consegnare ai posteri.
Natalie Portman in Jackie
Il racconto di Larraín si fa allora, come sempre, arbitrario. La forma cinematografica del biopic ci ha abituato così male da farci dimenticare che il cinema è, o dovrebbe essere, prima di tutto la visione di un autore, che l’obiettivo della macchina da presa è il proseguimento dell’occhio del regista che è autore e che costruisce la sua opera, il suo racconto attraverso non solo i tagli del montaggio ma ancor prima attraverso il taglio che a quella storia si vuole dare. In Jackie, come in Neruda, Larraín mostra di aver ben compreso che il racconto è sempre racconto parziale e che se è lecito il tradimento, se così vogliamo chiamarlo, alla verità tramandata, imperdonabile sarebbe quello nei confronti della propria visione, verso la convinzione che è solo dentro a una sfumatura che è possibile andare a ricercare il vero.
Larraín, e ne abbiamo bisogno, ci ricorda con la complessità della sua opera che il cinema, e in definitiva l’arte, non può e non deve essere didascalico, che il cinema non può ridursi a due ore di fiction televisiva. Non deve spiegare, ma deve farsi altro: deve, per citare Bolaño “affrontare il buio a occhi aperti”.