“C’è qualcuno, che alla fine del XIX secolo abbia un’idea chiara di ciò che i poeti delle epoche forti chiamavano ispirazione? Se non è così, voglio descriverla io. – Per quanto minimo sia il residuo di superstizione che si conserva in sé, non si riesce, in realtà, ad evitare la convinzione di essere semplici incarnazioni, semplici strumenti di voci altrui, semplici medium di forze superiori. Il concetto di rivelazione, nel senso che all’improvviso, con indicibile sicurezza e finezza, un qualcosa si fa visibile, udibile, un qualcosa che sconvolge e travolge, fin nel profondo, questo concetto descrive semplicemente il dato di fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si chiede chi offre; come una folgore si accende un pensiero, per necessità, in una forma priva di tentennamenti, – io non ho mai avuto scelta.”
Friedrich Nietzsche, Ecce Homo
– Sei stato ad una festa?
– No, nessuna festa. Sto facendo con Mirko e gli altri delle riunioni di autocoscienza. Hai presente le sedute di autocoscienza che fanno le femministe, in cui si parla di cose di cui non si parla mai di solito, in cui vengono fuori….hai presente?
– No
– Ho capito. Quindi non capisci che cosa stiamo facendo?
– No, per niente.
Nanni Moretti, Ecce Bombo
Torino. È il 30 novembre 2014, ma potrebbe essere anche una serata qualunque di un futuro post-apocalittico in quanto piove ininterrottamente da giorni, è domenica sera e ci siete solo voi che vi dirigete camminando tra strade sconosciute verso Porta Palazzo.
Che poi la situazione si faccia ancora più surreale è facile, se al primo italofono che riuscite a beccare dicendogli che dovete andare in Via Cottolengo vi risponde “Sì sì certo venga con me”, e durante il tragitto “Sa io ci vado sempre lì – pausa – Ci vado per curarmi la testa – pausa – perché sa, io sono pazzo.” “Benissimo – gli dite voi – allora siamo di sicuro sulla strada giusta”.
Salvo poi che il gentilissimo pazzo vi ha proprio accompagnati all’entrata dell’ex manicomio Cottolengo, dove due alpini e una suora vi fanno entrare nonostante le vostre resistenze, per convenire poi che sì, effettivamente vi trovate nel posto sbagliato (ma solo per un caso fortuito).
Finalmente riuscite ad arrivare al portone giusto, e non grazie al vostro intuito, ma solo perché, senza che voi gli abbiate chiesto niente, un ragazzo magrebino di posta di fianco al portone vi guarda e vi dice “Sì è lì”. Benissimo, siamo ancora più sulla strada giusta.
Il citofono è un collage di nomi venuti a sovrapporsi in modo caotico e provvisorio da tutto il mondo, appiccicandosi e sbiadendosi l’uno con l’altro in questo angolo sporco della città, in cui la piccola striscetta bianca con scritto sopra solo “Ossigeno” porta già un soffio di lucidità.
Se poi aveste salito le scale dai muri scrostati e la luce fioca, vi sareste finalmente trovati dove avreste dovuto essere: la casa è bianca, completamente spoglia, con piastrelle marroni lucide come pavimento e alte finestre. Porte che non si sa bene dove portino.
Poche persone sono arrivate ancora, quasi nessuno si conosce, ci si presenta; qualcuno sta a chiacchierare nella piastrellata cucina, qualcuno se ne sta sostanzialmente per i cazzi suoi nei grossi stanzoni vuoti. Per terra ci sono solo dei cuscini, coperte, tappetini di gomma e un ben fornito impianto stereo.
Nell’attesa esploro la casa, dove si trovano improvvisamente degli stanzini misteriosi che testimoniano il passaggio delle famiglie arabe e cinesi che per anni sono state gli inquilini di queste mura.
Lo si sente dappertutto questo miscuglio di effluvi che ancora aleggiano tra le pareti, come si cominciano a sentire i suoni provenienti dalle casse collegate al computer da cui sta suonando Domenico Sciajno.
Domenico Sciajno è uno sperimentatore che da anni si occupa di ricerca sonora e artistica finalizzata alla creazione di composizioni e performance audiovisive in cui field recording e processi generati dal computer, coesistono in rapporti sinergici. Grazie a questa sua indole per interessi trasversali a varie discipline, combinata ad una solida formazione accademica, Sciajno ha partecipato a tutti i maggiori festival di musica, media e arti in giro per il mondo: dalla Transmediale di Berlino al Gaudeamus Music di Amsterdam, dall’Electrofringe in Australia all’Experimental Intermedia di New York. Dal 2004 è stato inoltre professore di musica elettronica nei conservatori di Trapani, Roma e, da ultimo, Torino.
Durante il suo percorso artistico Sciajno si è concentrato sull’osservazione dell’interazione sinergica tra fenomeni sonori e fenomeni biofisici, coniando per essa un nome : Biosonologia. Bio [vita] sono [suono] logia [dialogo] sono i tre elementi che vanno a comporre la ricerca Biosonologica, la quale a sua volta si sviluppa in due ambiti principali che possono essere o meno collegati, quello terapeutico e quello artistico-creativo. Spinto da queste osservazioni nel 2005 Sciajno ha creato l’Istituto di Biosonologia, Accademia dell’Arte in Ascolto.
La biosonologia parte da concetti quali i battiti binaurali, da cui Sciajno ha sviluppato la ricerca di come le onde sonore influiscano sugli organi del corpo umano e sulle onde cerebrali, sia a livello organico che emotivo. Noi stasera siamo qui, in vesti pioneristiche, per fare un esperimento: sottoporci ad un’azione combinata tra le sequenze sonore di Sciajno e la tecnica di respirazione chiamata Breathwork.
Il Breathwork è una tecnica di respirazione circolare antichissima usata in molte delle culture pre-scientifiche, nei riti sciamanici e in un range di manifestazioni psicofisiche non spiegabili con normali leggi scientifiche, che comprende ad esempio fenomeni quali la preghiera Sant’Ignaziana, l’estasi dei santi , lo stato di trance delle tarantolate, il “battesimo dello Spirito Santo” dei cristiani pentecostali, il mito dell’ispirazione poetica/profetica e, ovviamente, le discipline yogiche orientali.
Il merito di averla però portata in Occidente in modo più o meno strutturato negli anni Quaranta, va a quel controverso ed enigmatico personaggio che fu Wilhelm Reich , ed alle varie discipline e correnti New Age dagli anni Settanta in poi.
Quello di stasera fa parte di un ciclo di incontri in cui Ilenia Berra del Collettivo C8lengo, organizzatrice dell’evento insieme a Saori D’Alessandro, propongono l’interessante e del tutto inedita commistione tra musica sperimentale e respirazione circolare, nell’ambito del progetto Ossigeno. Oltre Sciajno, hanno partecipato con le loro performances, artisti come Stefano Giust, IOIOI, Psalm’n’Locker, Gea Brown.
Saori è laureata alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino, studia e sperimenta il Breathwork in gruppo o individuale da quindici anni, lavorandovi attivamente da dieci, prima come assistente in stanza e poi come terapeuta a sua volta. Da tre anni ha deciso di fare di questo suo lavoro un vero e proprio progetto, spogliandolo di tutta l’aura mistica e frikkettona che vi aleggiava attorno, per proporne una versione postmoderna, e, nello specifico torinese, post-industriale, che lei ha battezzato candidamente e semplicemente come Ossigeno.
E’ infatti il semplice e basilare elemento dell’ossigeno ad essere al centro di questa pratica che si basa sull’aumento della capacità respiratoria o, più semplicemente, su un’iperventilazione autoindotta.
Normalmente siamo abituati ad associare l’iperventilazione a stati d’ansia o attacchi di panico.
Formicolii nelle mani, battito cardiaco accelerato, testa “leggera”, cambi di temperatura corporea repentini, e “straniamento” dal nostro stato di percezione ordinario, sono sintomi che ci spaventano quando abbiamo paura e il nostro respiro diventa corto “ingerendo” più ossigeno del normale.
Qui si tratta di saper gestire questo ossigeno. Si tratta di imparare a cavalcare quell’onda che solitamente arriva e travolge e spaventa a morte, e capire che surfandoci/respirandoci dentro non può soffocare ma anzi, alla fine, è in grado di rendere più compatti e più forti.
La differenza sostanziale tra la Biosonologia e il Breathwork però, consiste nel carattere essenzialmente esperienziale della prima, circoscritta al momento in cui la si vive, e l’intento invece duraturo e permanente degli effetti della seconda.
“ E’ una ricerca introspettiva, l’attenzione è rivolta al corpo e all’interno di sé e quello che può risultarne è, diciamo, decisamente vario. Uno degli scopi di una sessione di Ossigeno è permettere l’accesso a qualunque punto dello spettro delle emozioni e delle manifestazioni che normalmente si soffocano ed è mia personale cura occuparmene, contenerle e trasmettere tranquillità e il minor allarme possibile.” Ci dice Saori.
I partecipanti sono una trentina, per lo più tra i 25 e 35 anni, attirati dall’evento per i più disparati motivi: noisers attratti dall’aspetto sonoro della serata, appassionati di psichedelia e di pratiche pseudo-scientifiche, sperimentatori di sorta, dilettanti e professionisti di arti contemporanee, e, in generale, appassionati di tecniche, legali e non, per uscire dagli stati di coscienza ordinari. In una parola: psiconauti.
Bene, si comincia. In una breve introduzione, Saori spiega per i neofiti come funziona la tecnica e quali saranno i possibili effetti della pratica. Sciajno ci spiega come la musica andrà a combinarsi con questi e ad inserirsi nei nostri solchi emotivi.
Ovviamente l’esperienza è personale e cambia a seconda della propria attitudine, della propria postura fisica e morale, di quello che si sta cercando.
Ognuno è sdraiato sul proprio materassino nel buio più totale. Saori passa tra noi per tenere la situazione sotto controllo. Ognuno può reagire come vuole e lei è la nostra guida in questo viaggio psichico, Sciajno ne è il mediatore.
Saori ci fa fare un breve rilassamento e poi ci avvia alla respirazione dandoci il ritmo che in seguito ognuno potrà cambiare a proprio piacimento. Noi la seguiamo e presto entriamo nello stato di iperventilazione. Ognuno si immerge dentro se stesso. Si sentono i respiri. Le sequenze sonore cominciano.
Quando l’immersione è totale, i pensieri cominciano a fluire in un modo diverso, cambia la percezione di spazio e tempo, la percezione del proprio corpo. Il rumore del nostro pensare cosciente si abbassa e si alza quello dell’io che c’è e basta, del nostro essere nel qui e ora. Le vibrazioni della musica inducono movimenti fisici e un coinvolgimento ritmico dell’attività cerebrale, virate improvvise, immagini , ostruzioni e blocchi soliti dolgono e si sciolgono. Per quaranta minuti ci abbandoniamo all’esplorazione e all’ascolto della parte silente di noi stessi. C’è chi si rotola, chi si dondola, chi piange, chi ride a crepapelle, chi fa rumori orgasmici: ognuno comunque ha gli occhi chiusi ed è buio quindi nessuno ci bada.
“Molto spesso nel cercare di aprirsi alle cose insolute e potenzialmente dolorose, le persone si ritrovano con, al contrario, addosso un’allegria che non ricordano, e che socialmente deridono, o in lontani spazi di vuoto e silenzio e appagamento decisamente inusuali e che non vanno frenati.” Anche questo, ci aveva detto Saori, avrebbe fatto parte del viaggio.
La musica intanto sostiene la circolarità della respirazione con il suo ritmo, asseconda l’alterazione sensoriale con suoni ripetitivi (come l’effetto mesmerizzante dei tamburi sciamanici), fa da cuscinetto ai rumori della stanza in modo che ci si possa lasciare andare senza timori, permette di aprirci, incoraggia l’indagine di noi stessi, oscura, neutrale o infinitamente piacevole che sia.
Volendo, in qualunque momento si può rallentare, smettere di respirare o alzarsi accusando al massimo un capogiro e qualche minuto di stordimento – ma, essendo che tutta l’attenzione è rivolta all’interno, è come amplificata, ed è sufficiente per osservarsi da una posizione atipica ma favorevole perchè autoregolabile e non obbligata o veicolata da sostanze.
Dopo venti minuti si raggiunge un picco di tensione (o, per restare nella metafora, “la cresta dell’onda”) e poi piano piano si scende, o meglio, si torna in superficie, a galla e per dieci minuti, semplicemente, si sta.
Siamo tutti un po’ frastornati, molti dormono, una ragazza mi chiede “Puoi tenermi la mano per un po’?”. La sensazione è di compattezza, di interezza. Come dopo ogni attività aerobica, dal nuoto all’orgasmo, ci sente stanchi e rilassati.
Ci troviamo nuovamente tutti insieme per confrontare le diverse esperienze vissute: qualcuno ha visto molte immagini, qualcuno ha sentito più sbalzi di temperatura, altri si sono concentrati più sulla musica e ne hanno seguito l’andatura, qualcuno non ha sentito nulla. In generale, tutti sembriamo più rosei, e decisamente meno arroccati dietro la maschera sociale che ci accompagna d’abitudine; come succede sempre quando si vivono situazioni di vulnerabilità tra sconosciuti, gli sguardi sottendono una certa complicità.
Si discute e inevitabilmente si finisce a fare paragoni con gli effetti delle droghe, anche se in questo caso l’alterazione è favorevole all’autoindagine proprio perché è autoregolabile e non obbligata nei tempi e nei modi, come invece accade con le sostanze, che, per forza di cose, seguono una loro determinata parabola.
“ L’obiettivo alla fine, come sempre, è capire un po’ di più qual’è il proprio equilibrio tra forze in ingresso e forze in uscita e allenarsi a ricrearlo senza scazzare ogni volta che lo si perde.” Sentenzia infine la nostra guida.
In ogni caso, sebbene rientri tra le regole della psiconautica quella di non avere mete definite o definibili, che lo scopo fosse quello di fare un percorso di autocoscienza o di spalancare nuove porte della percezione,
possiamo tutti concordare, che l’esperimento è riuscito.