Incubi di morte: Sergio González Rodríguez e Roberto Bolaño

” Pendejos, No se juega con las leyes de los narcos satánicos”

Con queste parole ha inizio il brano di apertura del primo LP del gruppo death/grindcore Brujeria. Quando esce “Matando Güeros” è il 1993. Il caso vuole che sia proprio l’anno da dove hanno inizio i terribili eventi di “Ossa nel deserto“, il libro di Sergio González Rodríguez, che rivive in una nuova edizione per la collana “Gli Adelphi”, nella traduzione di Gina Maneri e Andrea Mazza.

I Brujeria ai loro inizi sono un gruppo secondario, un divertessment per musicisti già conosciuti all’interno della propria scena come Shane Embury dei Napalm Death e Dino Cazares e Raymond Herrera dei Fear Factory. Le tematiche trattate dal gruppo altro non sono che quelle tipiche di quel genere musicale: morte, violenza, satanismo e morbosità varie, intrise di un certo tipo di immaginario messicano legato al narcotraffico (anche per questo tutti i brani sono cantati in spagnolo). Spiccano titoli chiaramente estremi e violenti come “Molestando ninos muertos” o “Machetazos (Sacrificio II)”, immagini crude come la decapitazione esposta in copertina, ma anche brani legati alla mitologia del confine come “Cruza la Frontera”.

Ma perché sto raccontando dei Brujeria? Il motivo è perché “Ossa nel deserto” sembra ambientato esattamente in un loro disco (o forse perché il libro affronta qualcosa di talmente grande e disumano che non mi era possibile trovare un approccio diretto). Ma, per l’appunto, “Ossa nel deserto” non ha niente a che vedere con quello che è l’immaginario di qualche musicista con la passione per il gore. “Ossa nel deserto” fonda le sue radici in un luogo ben preciso, un luogo di polvere, mattoni e lamiere, un luogo chiamato Ciudad Juàrez.

Ciudad Juàrez

Al tempo dei fatti Ciudad Juàrez è, insieme a Tijuana, il più grande svincolo metropolitano per attraversare il confine verso gli USA e viceversa, una città dove autoctoni e forestieri si confondono senza soluzione di continuità, essendo El Paso ed il Texas sotto lo stesso cielo della città messicana. Ciudad Juàrez sembra un loco loco, una città fondata sul divertimento, l’alcool, la droga, i locali. Poco o niente di ciò che succede in città sfugge al controllo del potente Cartello ancora all’apice della sua forza, in un tempo ancora lontano dalla guerra tra narcos che portò Joaquin Archivaldo Guzmán Loera a prendere il potere. Ma Ciudad Juàrez è anche in mano al capitalismo più spietato, Ciudad Juàrez è la città delle maquiladoras, fabbriche sorte nel deserto, spesso legate alla produzione di piccoli componenti per macchinari, soprattutto di natura elettronica, da destinare alle grandi multinazionali della tecnologia. Fabbriche che hanno una particolarità: un elevato tasso di occupazione femminile. Giovanissime ragazze, spesso minorenni, talvolta ancora bambine, vengono prelevate da Ciudad Juàrez dai pullman pronti a lasciarle nel deserto, ai cancelli dei mostri di ferro e cemento dove consumeranno le proprie forze, i propri nervi, la propria carne per pochi spiccioli al giorno.

Se il cuore di un luogo sono però il narcotraffico e lo sfruttamento, ecco che quel posto finisce per essere abitato da spettri. E laddove ci sono gli spettri, vi sono i demoni. L’apertura con i Brujeria e “los narcos satanicos” non ha a che vedere con il caso, ma occorre prima fare un passo indietro per far apparire l’orrore indicibile. Le ossa nel deserto hanno infatti un proprietario, o semmai delle proprietarie. Ciudad Juàrez è il luogo di uno dei più grandi massacri di donne, ragazze e bambine della storia all’interno di un contesto non bellico. Un numero impossibile da quantificare, ma che Sergio González Rodríguez identifica nell’ordine delle centinaia e centinaia.

“Ossa nel deserto” è la lunga ricostruzione di come questo orrore sia stato possibile, su cosa sia fondato, su come possa essere (cosa impossibile) assimilato.

I capitoli del libro sono composti da tanti rami e molteplici strade che portano tutte all’ennesimo risultato: la cannibalizzazione della vita femminile. Una di quelle strade è appunto quella delle sette sataniche dei narcotrafficanti. Lungi da essere il risultato di un immaginario macabro, esse si presentano come il perno del ribaltamento rispetto ad un paese oggi fortemente cattolico, ma anche abitato dalla sempre presente aura dei culti antichi, dalla potenza dei sacrifici umani. Le sette si dedicano al sacrificio propiziatorio ma anche semplicemente alla morte per divertimento, la morte come soddisfazione delle pulsioni sessuali, il rito collettivo trasformato in cinematografia, la leggenda snuff fatta orribile realtà.

Ma quello che sorge rispetto a questa pista come unica possibile sembra essere un problema matematico/geometrico. È orrendo parlare di vite umane in questi termini, ma qualcosa non torna. Sono troppe. Sono troppe e sono dappertutto. Ad un culto si può attribuire qualche vittima, così come lo si può fare rispetto all’esigenza di massacro proveniente dai cinefili della morte, dello stupro. Ma non basta per spiegare quello che sta accadendo a Ciudad Juàrez. Donne spariscono quasi quotidianamente, i cadaveri affiorano nel deserto, nelle stanze di albergo, nei vicoli. Si fa strada la pista del serial killer. Sì ma quanti? Uno? Cosa può un uomo solo? E come si trova un uomo solo? E se non fosse solo?

Le forze di polizia messicane non sono attrezzate per un’indagine di questo livello e in più si aggiunge un’ipotesi che renderebbe questa persona totalmente introvabile: potrebbe essere un cittadino americano, qualcuno che superi la frontiera solo per sfogare la propria furia omicida e poi sparire chissà dove, nel Texas. Ma qualcosa si deve fare, l’opinione pubblica deve essere sfamata ed ecco che allora anche in questo caso la strada più facile viene intrapresa. Viene catturato un uomo di origine straniera, un uomo con precedenti, con precedenti di violenza sulle donne, l’imputato perfetto.

È il trionfo della legge: lo abbiamo preso, il mostro è Abdul Latif Sharif.

Eppure qualcosa non torna. Anzi, molte cose non tornano e la ricostruzione di González Rodríguez risulta magistrale nel ripercorrere la ragnatela di procuratori, poliziotti, e politici coinvolti, l’elenco di accuse e di testimonianze discordanti, l’aver deliberatamente ignorato verità scientifiche. Pagine ricche riguardano gli interessi partitici, l’alternarsi dei governi, l’immobilità.

Persino gli stessi esperti provenienti dall’FBI hanno seri dubbi, persino uno dei più esperti di tutti, persino Robert Ressler pur se non immune dai suoi errori (ai più forse il nome non dirà nulla, ma è su di lui che è basato il personaggio di Bill Tench nella celebre serie Mindhunter). Eppure le autorità messicane non mollano la presa su Sharif. Non la mollano neanche dopo un avvenimento dei più chiari e limpidi: con Sharif in carcere le donne continuano a morire.

L’autore ci rende partecipi dei veri e propri salti mortali compiuti dagli inquirenti per mantenere il tutto collegato a Latif Sharif e ai suoi sempre più numerosi complici, ma soprattutto ci mette di fronte ad un’inerzia brutale e disumana. Per la Polizia raccogliere una denuncia di scomparsa non significa più mettere in piedi la ricerca di una persona, bensì quella di un cadavere. Nessuna operazione legata ad un possibile salvataggio viene messa in opera e spesso le missioni di recupero dei corpi vengono identificate come “successi”. Il messaggio che passa è chiaro, brutale: sono solo ragazze delle maquiladoras, non importa a nessuno.

Croci a Lomas del Poleo (Ciudad Juárez) nel luogo in cui furono ritrovati i corpi di 8 donne

“Donne, razza e classe” scriveva Angela Davis all’inizio degli anni ’80 interconnettendo i fattori legati alla discriminazione nel contesto di un nuovo femminismo, e proprio questa lettura permette di dare una luce (o meglio di gettare un’ombra) sui terribili delitti della città messicana. Sono donne, sono latinoamericane, sono proletarie. Forse vengono dalla regione del Sinaloa, del Sonora, affittano qualche stanza in qualche periferia fatiscente, nessuno le conosce, nessuno le reclama. Invisibili.

A chiarire questa terrificante dinamica vi è un avvenimento ben preciso: la morte di Hester van Nierop.

Ritrovata cadavere sotto il letto di una camera d’albergo, Van Nierop poteva essere incasellata all’interno di un’altra tipologia: bianca, europea, turista. Il Messico poteva permettersi di sacrificare le proprie figlie, ma non poteva permettersi di non essere più un posto sicuro per la classe dominante. Vi è di mezzo un’ambasciata, rapporti internazionali, l’Olanda vuole sapere cosa è successo, l’Olanda pretende un colpevole e le forze messicane devono fare qualunque cosa per trovarlo. Le autorità messicane si muovono, mettono in mostra uno sforzo reale, vengono riportate diverse interviste dedite alla ricerca della ragazza, ma la storia di Van Nierop sembra avere delle tinte più fosche di qualunque altra, gli oggetti spariscono, la vita della ragazza a Ciudad Juàrez sembra un mistero irrisolto, sembra come se la questione debba chiudersi in fretta, come se qualcuno questa volta abbia esagerato. Niente nella storia di Hester van Nierop sembra essere uguale a quella delle altre vittime, tranne in un particolare: anche la sua morte rimarrà senza colpevole.

González Rodríguez pur muovendosi nell’ambito della saggistica mantiene una tensione costante, la scrittura utilizzata presentifica la morte, che ricade addosso al lettore in ogni momento, per farlo sentire all’interno del flusso temporale della tragedia. A capitoli politici si alternano i racconti delle ultime ore di vita delle vittime e la straziante ricerca di chi è ancora in vita in un confronto aperto e crudo con la realtà.

Un lungo penultimo capitolo non è altro infatti che un elenco di nomi, età, cause della morte, segni di violenza sessuale, descrizione degli indumenti ritrovati, venti fitte pagine piene di lettere ma ancora più piene di silenzio, in particolare per quei casi, molti, moltissimi, che portano una dicitura terrificante tanto nella vita quanto nella morte: vittima non identificata. Decine e decine di vite scomparse nel nulla, nessuna possibilità di risalire ad affetti, nessuna denuncia di scomparsa, esseri umani martoriati e volatilizzati come frutto di questa costituzione del mondo monadologica che incentiva la separazione, l’individuo, che disgrega il senso di comunità, macinando la carne del più debole.

Intanto la lista dei colpevoli si allunga all’infinito, Sharif, bande locali, mariti, gli autisti dei pullman che portano alle maquiladoras, la fine è lontana. Ma allora c’è qualcosa di più di grande, c’è qualcosa di enorme che potrebbe essere definito un gigantesco general intellect patriarcale da prendere nella chiave di lettura di un general intellect aperto alla propria realizzazione già nello step del late-stage-capitalism. Un deposito senza fine di pratiche patriarcali, che si muovono in questo senso in maniera verticale tra uomini di ogni estrazione, di pratiche linguistiche, di pratiche fisiche, di pratiche di morte che come mostra González Rodríguez sono orientate tutte alla stessa cosa: il dominio sul femminile.

Ed è proprio a partire da questa interpretazione che non può che affacciarsi un nome tra i lettori e gli interpreti di “Ossa nel deserto”: Roberto Bolaño. Il compianto autore cileno al’interno di uno dei capitoli del suo immenso capolavoro “2666” si confronta direttamente con i massacri di Ciudad Juàrez offrendoci un viaggio surreale e stratificato.

Innanzitutto Bolaño si dedica alla meticolosa costituzione di due rette parallele, da un lato la sua Ciudad Juàrez (nel romanzo Santa Teresa) e dall’altro i suoi personaggi, non personaggi polizieschi, non i narcos delle sette, ma personaggi lontani, trapiantati: studiosi e accademici che sfilano di fianco l’orrore nella ricerca di uno scrittore perduto.

L’esergo che Bolaño sceglie per il suo romanzo mondo oltre ad avere una dimensione esistenziale ben delineata sembra quasi cucito sulle membra di Santa Teresa/Ciudad Juàrez, l’autore cileno infatti apre il romanzo con le seguenti parole di Baudelaire: un’oasi di orrore in un deserto di noia.

Se ci appropriamo della dicotomia oasi/deserto mentre in rapporto alla coppia deserto-noia possiamo trovare una relazione continuativa per la coppia oasi-orrore troviamo una relazione ossimorica. L’oasi è infatti il salvifico per eccellenza, il ristoro, l’acqua per gli assetati, in questo modo è quindi l’orrore ad acquisire un’accezione di forza “positiva”, la forza del sacrificio, la forza del godimento nella tortura, il massacro dal punto di vista del perpetrante si fa oasi a fronte del deserto di Ciudad Juàrez.

Bolaño si fa osservatore sociale sondando da un punto di vista analitico il rapporto con la figura femminile all’interno della società dell’America Latina, dall’altro si fa costruttore di mondi offrendo una visione tridimensionale, nel triplice e differente sguardo offerto dal personaggio di Amalfitano, da quello della figlia e da quello dei ricercatori.

Amalfitano copre un punto di vista di coinvolgimento esterno, sua figlia di coinvolgimento interno e i ricercatori di non-coinvolgimento.

Il personaggio di Amalfitano è quello maggiormente colpito dal punto di vista del terrore della perdita di un affetto e tanto emblematici quanto struggenti sono i suoi tentativi di far portare via la figlia Rosa da Santa Teresa, ridotto ad implorare pur di salvare il suo unico affetto rimasto.

D’altro canto Rosa che è colei che dovrebbe vivere la paura sulla propria pelle è invece l’enorme simbolo della resistenza, Rosa vive la sua vita di ragazza, esce, va al cinema pur sapendo che potrebbe essere l’ultima volta, ma davanti alla paura sceglie di vivere nella maniera più piena in quello che sembra essere un simbolismo della rivoluzione.

Il ruolo dei ricercatori nell’assenza di coinvolgimento primario è proprio l’aggancio tra 2666 e   “Ossa nel deserto” un avvicinamento “aereo” che sviscera fatti, pone domande, incastra ipotesi, in quello che però è uno stile opposto a quello giornalistico, mettendoci davanti allo stesso evento raccontato con due modalità diverse, la chiarezza espositiva di un saggio e il vortice di quella che è una delle più grandi opere di letteratura del nostro secolo.

Da questo punto di vista attraverso l’arma del mescolamento tra finzione e realtà l’autore cileno imprime al suo gigantesco romanzo una svolta sociale e politica usando il nodo del massacro per comprendere a pieno il suo mondo storico-culturale in un’opera che parte dal sangue per racchiudere al proprio interno ogni angolo di spirito dell’America Latina dal più profondo e antico dei sentimenti alla più grande distorsione riportata dal colonizzatore.

“Ossa nel deserto” e  “2666” sono il duplice volto della stessa realtà, due libri che se letti insieme aprono al confronto del linguaggio, all’esame di ciò che è il confine tra il possibile e il reale, la storia, lo spirito di un luogo e lo fanno nella maniera più cruda e sanguinosa possibile: il disvelamento dell’orrore concreto.

Exit mobile version