Leonardo Di Caprio al suo quinto tentativo porta a casa la sua prima statuetta. C’era talmente tanta attesa intorno al premio come Miglior Attore che il riconoscimento a Di Caprio sembra quasi aver oscurato tutti gli altri premi. Noi che più di clamore amiamo parlare di cinema proveremo invece a raccontare il senso di questa notte, cercando di capire se abbiano vinto i candidati migliori e quali siano state le ragioni dietro i premi dell’88ma notte degli Oscar.
Ricordiamo, facendolo adesso, per non tornarci più, che il meccanismo degli Academy Awards è piuttosto complesso, come solitamente quelli afferenti al mondo anglosassone. A differenza delle grandi rassegne europee (Venezia, Cannes, Berlino) che rappresentano un vero concorso, diviso in sezioni, ciascuna delle quali con una propria giuria obbligata a vedere i film in gara, gli Academy Awards, con i suoi circa seimila votanti, non presentano alcun obbligo di visione dei film, anzi è possibile votare anche per il solo film che si è visto. Questo crea il meccanismo del For Your Consideration, la dicitura presente su copie di dvd, su cd, su riviste specializzate di settore come American Cinematographer, che cercano, attraverso la promozione di far conoscere agli addetti ai lavori la propria opera. Questo fa degli Academy Awards, chiamati Oscar perché la statuetta assomigliava a un simpatico zio con questo nome, un premio atipico, che unisce al potere mediatico degli States (vincitore di un Oscar è un marchio capace di moltiplicare la vendita di biglietti di qualsiasi film) un piccolo circo fatto anche di gossip, di red carpet e di film votati con un meccanismo piuttosto complicato che tende a far vincere il film con più voti, ma non necessariamente il migliore.
Prima di addentrarci nei premi vale la pena far notare come in questa edizione abbiamo assistito a un racconto del passato e del futuro, molto meno della contemporaneità. Ben cinque film tra le varie candidature sono ambientati negli anni ’50, Carol, Il Ponte delle Spie e Trumbo, altri nei primi anni del novecento, è il caso di Brooklyn, di The Revenant e di The Danish Girl, altri ancora nel futuro, The Martian e Mad Max: Fury Road. Solo pochi, Spotlight, La Grande Scommessa e Anomalisa raccontavano un passato più recente (tutti ambientati intorno al 2005). Molte le storie di sopravvivenza, non solo quella, emblematica fin dal titolo, di Leonardo Di Caprio tra i ghiacci dell’America del Nord, ma anche quella di una splendida Saoirse Ronan dall’Irlanda a Brooklyn negli anni venti, gli stessi in cui Eddie Redmayne cerca di sopravvivere alla consapevolezza del suo corpo. Ancora Tom Hanks nella Berlino da Guerra Fredda, Mad Max e Matt Damon in inquietanti universi futuristici e futuri. Poi Dalton Trumbo nell’America del maccartismo, Brie Larson nello spazio angusto di un’opprimente stanza fino alle meravigliose Cate Blanchett e Rooney Mara che devono difendere il loro amore dall’ingerenza dell’America puritana. Se i film in concorso non raccontano la contemporaneità, lo fanno evidentemente di riflesso: la costante minaccia alla stabilità, economica, emotiva e affettiva trova sublimazione in storie di eroi più o meno solitari che cercano di passare attraverso la tempesta per (ri)trovare se stessi.
Il premio per il Miglior Film è andato un po’ a sorpresa a The Spotlight, storia del Boston Globe e dei suoi giornalisti che agli inizi del nuovo millennio portarono alla luce lo scandalo della pedofilia nell’Arcidiocesi di Boston e della rete di copertura della stessa negli interi Stati Uniti. Un film bello e compatto, sorretto da un buonissimo cast di attori (che non hanno ricevuto alcun premio) ma d’impianto assolutamente classico, una sceneggiatura solida ma non eccelsa, una regia attenta ma senza grandi momenti. La sensazione è che , alla fine, sia stato premiato il tema prima ancora del film, che siamo insomma dalle parti del premio etico, del riconoscimento verso una storia esemplare e ben raccontata.
Grande sconfitto The Revenant, l’affascinante affresco pittorico di Iñárritu, già vincitore lo scorso anno con Birdman, che non riesce a bissare il miglior film, ma riesce a portare a casa per due anni consecutivi il premio come Miglior Regia (che gli consente, a lui messicano, di fare un accorato discorso contro la discriminazione razziale). A The Revenant va anche la Miglior Fotografia, al grandissimo Emmanuel Lubezki: al Chivo riesce l’impresa di aggiudicarsi la terza statuetta consecutiva dopo quelle ottenute con Gravity e Birdman. Un premio che quest’anno ha ancora più valore per il grande direttore della fotografia (tra gli altri anche di Terrence Malick, ed è difficile non riconoscere in alcune sequenze di The Revenant un debito verso l’altro grande direttore malickiano ai tempi di Days Of Heaven, Néstor Almendros) poiché la cinquina era composta di maestri del genere (straordinaria la fotografia sgranata su 16mm di Ed Lachmann per Carol come quella su 70mm di Robert Richardson per The Hateful Eight).
Sicuramente The Revenant sarà ricordato, però, per essere stato il film che ha dato finalmente l’ambita statuetta a Leonardo Di Caprio, come Miglior Attore Protagonista. Arriva forse nell’anno in cui la meritava di meno, per un film dove, nei fatti, recita davvero in una sola scena, e per il resto è un lavoro di corpo tra sofferenze e prove di resistenza, mugugni e gemiti ma con uno sguardo sempre proiettato verso il momento della vendetta, l’arma formidabile e micidiale che riesce a tenerlo in vita. Forse Redmayne, al netto di qualche esasperazione, e Fassbender lo meritavano maggiormente ma alla fine si è interrotta un’attesa che durava da troppo tempo e che premia comunque un attore maturo capace di investire da sempre in progetti di grande valore e respiro.
Oltre a Di Caprio, è tutto il settore attori che non ha riservato grandi sorprese. Mark Rylance è Miglior Attore Non Protagonista per la sua performance, asciutta e incisiva ne Il Ponte delle Spie, film per altro assolutamente prescindibile, battendo Sylvester Stallone per il suo vecchio Rocky in Creed.
Brie Larson, segregata in Room insieme al piccolo Jacob Tremblay (imbarazzante la sua assenza tra le nomination), vince come Miglior Attrice Protagonista battendo l’algida e sempre perfetta Cate Blanchett di Carol ma anche la giovane Saorsie Ronan (la Briony di Espiazione) fragile e determinata nel ricostruirsi una vita a Brooklyn.
Miglior Attrice Non Protagonista è Alicia Vikander, per The Danish Girl, premio assolutamente meritato per un’attrice di straordinaria intensità che riesce a mettere in ombra di là dal premio, un talento assoluto come Redmayne riuscendo a portare sullo schermo una donna di rara forza e abnegazione che ridà valore alla parola “amore”. Rooney Mara, forte di una bellissima interpretazione in Carol deve arrendersi alla forza della giovane attrice svedese ma è tutto Carol che esce sconfitto (pur rimanendo a parere di chi vi scrive tra i più bei film della stagione).
Il Miglior Film Straniero va come da programma all’ungherese Son Of Saul, che riesce nell’impresa di ricodificare la narrazione dell’olocausto, ma dispiace per il delicato affresco al femminile di Mustang che racconta con poesia la condizione femminile della Turchia più rurale.
Inside Out stravince come Miglior Film di Animazione, nulla ha potuto Anomalisa di Kaufman contro il colosso Disney. Va segnalato come anche l’animazione inizi a essere più matura, raccontando entrambi i film, storie di disadattamento e di vuoto interiore scegliendo il primo, una brillante analisi dei meccanismi della mente in uno scenario ricco di colori ma anche di una profondissima analisi sul senso delle emozioni, il secondo, una storia più opaca e straniante come in un racconto di Carver.
La Grande Scommessa, che pure si presentava con cinque nomination, porta a casa solo il premio come Miglior Sceneggiatura Non Originale. È ancora Spotlight, ad aggiudicarsi, invece, il premio per Miglior Sceneggiatura Originale, forse con qualche maggiore perplessità e ai danni di un film bellissimo come Straight Outta Compton.
Mad Max: Fury Road fa, come prevedibile, incetta di premi tecnici, Miglior Scenografia, Montaggio, Sonoro, Montaggio Sonoro, Costumi, Trucco e acconciature portandosi a casa ben 6 statuette (e lasciando The Martian a bocca asciutta). Un ottimo risultato per un film che porta in scena, va detto, con grande efficacia, uno scenario futuristico che pur somigliando a un fumettone distopico ha convinto anche oltreoceano nella sua presentazione fuori concorso al Festival di Cannes.
Miglior Documentario va ad Amy di Asif Kapadia, che supera sia The Look of Silence di Oppenheimer (seguito del più incisivo The Act of Killing) e ancora in ambito musicale il bellissimo What Happened Miss Simone? di Liz Garbus che intreccia la storia della grande musicista con le grandi lotte dei movimenti afroamericani.
Miglior Colonna Sonora è il premio dato a Ennio Morricone per The Hateful Eight, dopo quello alla carriera nel 2007. È innegabile che Morricone sia il più grande compositore di cinema ancora in vita e la partitura per l’ultimo film di Tarantino (che ha supportato in maniera straordinaria la nomination del maestro romano) è ancora una volta un’opera a sé stante, di pregiato fascino e valore. Vince Morricone non con la sua nomination migliore (è stato candidato anche con I Giorni del Cielo di Malick, con Mission di Joffé e Gli Intoccabili di De Palma) e va detto che Tarantino ne fa un uso fin troppo discreto nel suo film, ma anche se Carol di Carter Burwell aveva una colonna sonora più incisiva e protagonista del film ovviamente non possiamo che rallegrarci per un riconoscimento così importante verso uno dei pochissimi italiani che, con enorme merito, è conosciuto al di fuori dei nostri confini.
Miglior Canzone è andato a Writing’s on the Wall per Spectre, pezzo a dire il vero deboluccio, soprattutto se confrontato con gli altri della tetralogia con Daniel Craig (Chris Cornell, Adele, Jack White) che ha battuto la lirica di Simple Song #3 di Lang per Youth di Sorrentino e la ben più bella Manta Ray del nuovo progetto di Anthony Hegarty alias Anohni, al centro di una polemica a ridosso dello spettacolo al Dolby Theatre per la sua esclusione dalle esibizioni. La sua è stata vista come non in linea con lo spirito pop della manifestazione (escluso anche il pezzo di Lang) ma le modalità di esclusione hanno lasciato evidenti perplessità sull’imbarazzo da parte dell’Academy di confrontarsi con un artista che da sempre e oggi con maggiore forza rivendica il suo essere transgender. Il tema fortemente ambientalista del documentario a cui la canzone fa da tema, Racing Extinction, se non è riuscito a salire sul palco attraverso la voce incantevole di Hegarty ha però trovato spazio nel discorso di ringraziamento di Di Caprio.
Di là dalla ragionevole polemica di Anohni, questi Oscar saranno ricordati anche per l’hashtag #oscarsowhite nato dopo l’assenza nelle nominations di qualsiasi persona di colore. Anche tralasciando film completamente esclusi come Beasts of No Nation, sorprende ad esempio di Creed l’inclusione del solo attore bianco, Stallone, e nessuna nomination per il bravissimo Michael B. Jordan. Così come di Straight Outta Compton che racconta la nascita del gangsta rap e dei N.W.A. nella Los Angeles incendiata dal pestaggio di Rodney King e che supportata da un cast di giovanissimi e bravissimi attori ha ricevuto solo la candidatura per la sceneggiatura (bianca). È vero che a Spike Lee è stato dato l’Oscar alla carriera (non ritirato proprio per via del boicottaggio da lui stesso promosso) ma chi ha visto il suo ultimo Chi-Raq non può non soprendersi dell’assenza tra le candidature della brava Teyonah Parris.
La presa di posizione dell’Academy che ha ammesso che il tutto deriva da una presenza preponderante di bianchi tra i votanti e di voler correre ai ripari, restituisce però a valle di una serata di gala la sensazione che anche l’arte cinematografica ha ancora davanti a sé una lunga strada perché si arrivi a una vera e reale integrazione.