Oro, Argento e Ferro è la nuova raccolta di poesia di Carlo di Francescantonio, pubblicata da Marco Saya Edizioni nella collana Sottotraccia. Versi che affondano nel male di vivere del tempo contemporaneo: polaroid e ultimi tanghi, luminarie di momenti, canti e invettive generazionali. “Come un Corazzini che rifiuta il pianto, ma persegue la voracità e l’egoismo dell’infante”, scrive Elio Pecora nella postfazione.
Leggiamo due componimenti estratti da Oro, Argento e Ferro.
La collina
oggi sono tornato al cimitero
e sono stato bene. C’era mia madre
che si occupava della tomba di famiglia,
di quel che resta dei morti.
Toglieva la polvere, metteva fiori finti
nei vasi e intanto mi parlava.
In un angolo un animale notturno
ha lasciato in ricordo le sue feci.
È anche così che vanno le cose,
intanto mi guardavo attorno e vedevo
una lunga pace che arriverà a tutti.
Facciamo in modo che il dolore
non ci scavi troppo
Andare per stanze
io non sono qui. Non un altro, come ha scritto
in una lettera Arturo. È solo un momento il fatto
che io sia corpo, che abbia queste sembianze. L’anima
non ha tracce di naftalina. Nemmeno voglia
di stare chiusa troppo a lungo. Ho sempre in sospeso
gli armadi marini e non è ancora arrivata l’estate.
Ma sai che il metro del tempo è il nostro vestito
più stretto. L’andare per stanze che
non ci rappresentano. L’eterna condizione dell’ospite
che va a marcire come i pesci sul banco. Sembra
che niente abbia un cielo ed è così che perdiamo
l’occasione del volo. Innalzarsi dovrebbe tuonare
come un comandamento. Invece scegliamo l’àncora,
le zavorre, il porto sicuro. E gli anni passano spietati.
Ci esauriscono, gli anni. È una tragedia che porta
alla pensione, dove più niente è reale. Ma a qualcuno
sembra che proprio da lì comincino i sogni