Ci sono personaggi che con la loro musica hanno posto la base di qualcosa che ascoltiamo oggi, e per questo il loro nome riecheggia fino ad arrivare a noi in un’eco vorticosa e quasi incomprensibile. Rimbombando nell’oscurità e sconosciuti ai più: oggi scaviamo nel passato per rileggere il presente.
Era il 2013, ascoltavo Thom Yorke al lavoro con il suo supergruppo, gli Atoms For Peace. Volevo approfondire e capirne le basi, quel suono mi stregava. Sembrava qualcosa di misterioso e quasi colloso, tanto ti si appiccicava addosso, e mi piaceva. Mi imbattei in uno dei musicisti, forse lontano da me, che ha esercitato su di me – ed esercita tuttora – un gran fascino per via del suo suono. Cercai di andare in profondità e afferrare i riferimenti, fino a comprendere quale fosse la provenienza di tutto quel groove.
Il suo nome forse non è noto ai più, perché non ha goduto di così tanta risonanza da giungere ai giorni nostri, eppure ha scritto una parte importante della storia della musica d’Africa. Quanti hanno mai sentito parlare di Fela Anikulapo Kuti, noto anche come “The Black President”? Per raccontarvi chi è Fela Kuti il viaggio parte con una piccola digressione che ci porta in un arco temporale che spazia dagli anni ‘60 alla fine del Novecento.
Conosciuto anche con lo pseudonimo “The Black President”, Fela Kuti nasce in Nigeria nel 1938 da una famiglia del ceto medio. Padre insegnante e madre attivista femminista (che vanta anche il titolo di essere la prima donna nigeriana ad avere avuto la patente di guida). Un personaggio piuttosto di nicchia, che grazie alle sue sonorità fratte e ricercate, ha avuto un impatto considerevole sulla musica, tanto da creare un vero e proprio genere musicale: l’afrobeat.
La storia inizia con una deviazione nel percorso. Infatti, a vent’anni, nel 1958, Fela Kuti si trasferisce a Londra con l’intento di studiare medicina. Decide invece di iscriversi al Trinity College of Music, diplomandosi con la tromba. Sono i primi segni di uno spirito indomito appassionato di musica. Conosce quindi il jazz europeo, che poi unirà ai ritmi africani, fondando nel 1961 insieme all’amico Jimo Kombi Braimah e altri ragazzi caraibici espatriati il suo primo gruppo musicale, i Koola Lobitos.
Agli inizi degli anni ‘60 l’afrobeat diventa quindi il loro stile, traendo ispirazione anche dai tratti vocali di James Brown. Uno stile fatto di un ritmo coinvolgente e dalla percussione poliritmica, con beats ripetuti più volte e assorbendo dal jazz l’uso dell’improvvisazione.
Nel 1964, di ritorno in Nigeria, Fela conosce il percussionista Tony Allen, che purtroppo ci ha lasciati da poco. Percussionista e produttore fino ai giorni nostri, tra gli altri anche di Damon Albarn (Blur, Gorillaz e The Good The Bad), che insieme ai Gorillaz ha rilasciato un brano tributo, Tony Allen è stato un tassello chiave nello sviluppo di ciò che venne nella storia di Fela.
Fela collaborò con Tony Allen a partire dal 1965, con la sua entrata ufficiale nella band Africa 70, la band che cambiò nome in Koola Lobitos, apportando la svolta decisiva nel suono di Fela, al di là del jazz tradizionale: iniziò la storia dell’afrobeat.
Per Fela Kuti la musica assurgeva il suo scopo più nobile: quello di veicolare un messaggio e un significato. Non si è mai trattato di musica fine a sé stessa, non era semplicemente musica, non era un vezzo stilistico. L’Afrobeat era anche uno strumento di denuncia sociale, di critica al sistema, di ribellione. Suonerà simile a chi ricorda la nascita del blues nelle piantagioni di cotone nel XIX secolo…
Poco più che trentenne, nel 1969 Fela compie un viaggio negli USA, dove, grazie a Sandra Isidore, entra in contatto con gli scritti e la politica di Malcolm X e Eldridge Cleaver.
Qui si avvicina al movimento Black Panther, l’organizzazione rivoluzionaria che si batteva per la rivendicazione dei diritti della comunità afroamericana, sull’onda degli attivisti Malcolm X e Martin Luther King. Le Pantere Nere alla nonviolenza preferivano il concetto di autodifesa, e abbracciavano quindi il “Patrolling”, il pattugliamento armato, seguendo la polizia nelle azioni che svolgeva, per condizionarne l’operato ed evitare abusi di potere sulle persone di colore che venivano fermate. La loro visione abbracciava principi egualitari e di lotta di classe, di stampo marxista-leninista, in opposizione alla struttura capitalistica americana.
Al ritorno in Nigeria fonda uno spazio denominato “Repubblica Kalakuta”. Un misto tra una comune e uno studio di registrazione, che porta gli Africa 70 a diventare popolari e schierarsi dalla parte degli oppressi dal regime, tanto da destare le ire di quest’ultimo e provocare l’arresto di Fela (un’altra delle numerose volte, quasi duecento, che è stato arrestato) insieme ai suoi compagni nel 1977.
Si riferisce proprio a casi come questi il brano “Zombie”: agli agenti che, come zombie, cioè soggetti privi di coscienza e di ragionamento, seguirono ordini impartiti. In un raid, col pretesto di un’operazione antidroga, incendiarono lo studio Kalakuta Republic e alcune case, picchiando e arrestando diversi residenti, e gettarono la mamma di Fela Kuti (Funmilayo Ransome-Kuti) dal secondo piano della casa in cui viveva, provocandone la morte dopo qualche mese.
Come spesso avviene (soprattutto) nei Paesi in cui le forme di governo sono meno permissive, la musica diventa una valvola di sfogo difficilmente censurabile (ricordo di un articolo in cui si parlava di come la musica sfuggiva al controllo della censura sovietica venendo stampata sulle lastre mediche).
È questo il caso di “Expensive Shit”, una canzone riferita a uno degli svariati arresti subiti da Fela Kuti per il fatto di essere politicamente schierato contro il regime Nigeriano. L’accaduto riguarda l’incarcerazione, questa volta, per uno spinello detenuto da Fela, che, prima di farsi arrestare, però, ingoiò. La storia vuole che Fela venisse portato in prigione, dove i poliziotti aspettarono che, come si può intuire dal titolo, defecasse per incriminarlo, ma lui se la cavò usando le feci del suo compagno di cella, e fu liberato.
Il side b di quel disco è “Water No Get Enemy”, una canzone del 1975, che si rifà a un detto africano, ispirandosi alla potenza della natura e dell’universo, e probabilmente alla sua capacità di rigenerarsi.
Nel 1978 Fela emigra in Ghana per fondare il suo partito politico l’anno successivo, il Nigerian Movement of the People. Anche negli anni ‘80 continuò con l’espressione del suo pensiero politico, pubblicando insieme agli Africa 70 “Beasts Of No Nation” nel 1980. Questo era un disco contro l’apartheid, che vedeva in copertina l’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, la premier britannica Margaret Thatcher e il presidente Sudafricano Pieter Willem Botha. Fu quest’ultimo, in una sua dichiarazione, ad affermare “Questa rivolta (contro il sistema dell’apartheid) farà emergere la bestia in noi”.
C’è una frase che mi ha colpito nel docu-film dedicato a Fela Kuti (Il potere della musica, 2014): “In Africa la musica non può essere intrattenimento, è rivoluzione. La musica è un’arma”. In queste poche parole si riassume quella che è stata la vita di Fela.
Nelle millecinquecento ore di materiale guardate e selezionate da Gibney, condensate nel docu-film, viene calcato troppo l’aspetto eversivo e rivoluzionario di Fela Kuti, lasciando passare in secondo piano l’importanza dei testi e il genio musicale, ma si tenta di raccontare in parallelo il percorso musicale e quello personale di Fela, calcando troppo sugli aspetti trasgressivi.
Al di là dell’interessante biografia di Fela, che necessariamente si intrinseca con la sua produzione musicale, ciò che mi ha colpito maggiormente quando lo ho scoperto è stato il suo avanguardismo in fatto di ritmi. Parliamo di diverse decadi di distanza, e ciò che colpisce è che ancora oggi (grazie al genere che ha contribuito a creare) se ne sentano gli echi. Il suo è un genere che va diretto allo stomaco, è movimento puro, che intrappola e incanta.
Oltre alla potenza intrinseca della sua musica, un aspetto che mi ha piacevolmente stupito è la storia del personaggio. Quell’andare oltre l’intrattenimento. È un fattore su cui ho avuto modo di pensare di recente. Mi sono chiesto quale fosse lo scopo della musica, se ne avesse uno solo o molti. Mi incuriosiva l’evoluzione del suo ruolo nella storia. Quanti passaggi ha fatto e continuerà a fare tra intrattenimento e ribellione, divertimento e comunicazione?
Alla base della musica di Fela sono state poste le sue idee progressiste e d’avanguardia, che lo resero un personaggio scomodo per il regime. Per Fela la musica era mezzo di comunicazione e contenuto stesso. Fu un polistrumentista che usava la musica per comunicare, e nello stesso tempo andare contro: contro un regime, contro uno stile di vita, contro le ideologie. La sua musica comunicava con un mix perfettamente calibrato di jazz highlife, funk e soul. Ciò che ci rimane di Fela Kuti, ora, a ventitre anni dalla sua morte per AIDS, è la sua musica: in una parola sola “afrobeat”.