Nell’arco di ventiquattro ore la Stazione Spaziale Internazionale percorre quasi sedici orbite intorno al pianeta Terra. Al suo interno, astronauti e cosmonauti galleggiano placidi – o almeno è ciò che danno a vedere – a un’altitudine di oltre trecento chilometri. Di queste esistenze galleggianti si occupa il romanzo vincitore del Booker Prize 2024, Orbital di Samantha Harvey, in Italia pubblicato da NN editore nella traduzione di Gioia Guerzoni. Quinto romanzo per la scrittrice inglese, non la prima candidatura al Booker Prize, ma prima vittoria accolta, durante la serata evento di proclamazione, con le mani a coprire parte del volto e gli occhi fissi sul tavolo. Nelle interviste Harvey ammetterà che ci è voluto tempo per realizzare e riemergere dallo shock dell’annuncio.
In Orbital non esiste trama. Il tempo scorre veloce rispetto alla terra e lentissimo per la mente umana, e i capitoli seguono le sedici orbite, molli e fluttuanti come i corpi dei quattro astronauti e due cosmonauti chiusi in una stazione spaziale simile per comportamento e scopo alla Stazione Spaziale Internazionale, coinvolti in un viaggio intorno alla terra che non porta in nessun luogo, se non alla staticità apparente. È questo il primo paradosso del romanzo: orbite che sorvolano la superficie terrestre e riportano al punto di partenza per sedici volte in un giorno, per poi ricominciare in un ciclo che parrebbe eterno. Eppure in questo viaggio verso il punto di partenza i sei personaggi vedono tutto: un globo blu che sembra stazionare nell’infinito e che conta pochissimo e tantissimo allo stesso momento. Solo uno spessore trascurabile di lamiere separa i loro corpi dal vuoto cosmico e nonostante questa realizzazione, consci del pericolo, portano avanti gli esperimenti quotidiani e i compiti che gli sono stati assegnati. Il romanzo è ambientato in un futuro prossimo in cui è in corso una nuova missione lunare e ciò quasi deresponsabilizza gli astronauti immaginari di Harvey, straordinari nelle loro capacità, ma non abbastanza, c’è qualcuno che li ha superati. A loro non resta, quindi, che osservare dalla loro posizione privilegiata il pianeta Terra, antica roccia che, a dirla tutta, potrebbe fare a meno della vita umana rimanendo impassibile nel suo tempo cosmico, ma che l’intero genere umano chiama casa. Harvey immagina di fotografare i sei personaggi in un giorno spaziale languido travestito da momento ordinario, in cui tra un esperimento e l’altro gli uomini e le donne di questa missione si abbandonano ai loro dubbi, ricordi e ragionamenti che nello spazio prendono una forma del tutto diversa rispetto alle meditazioni terrestri. Cambia la prospettiva, emergono dettagli nuovi, uno su tutti la vulnerabilità del sistema Terra. Ed è proprio la vulnerabilità a rivelarsi uno dei temi portanti di Orbital, intesa sia come fragilità di ecosistemi che da lontano appaiono piccoli e preziosi, ma anche come condizione chiave dell’esistenza umana. Al di là della routine scientifica a cui i personaggi si prestano, perché è quella la loro missione principale, Harvey ricava per loro un giorno intero di ricordi e ragionamenti in cui si pongono domande sui propri cari rimasti sull’enorme globo blu che sorvolano, sul ruolo del suddetto globo nel sistema dell’universo (spoiler: nessuno) e su sé stessi e le proprie motivazioni.
Per una frazione di secondo Shaun pensa, che diavolo ci faccio qui, in una lattina in mezzo al nulla? Un uomo in lattina. A dieci centimetri di titanio dalla morte. […] Perché fare una cosa del genere? Perché cercare di vivere dove non si può prosperare, perché cercare di andare dove l’universo non ti vuole, quando invece c’è un’ottima Terra pronta ad accoglierti? Non sa mai se questa sete di spazio degli umani sia curiosità o ingratitudine. Se questo strano desiderio lo renda un eroe o un idiota. Senza dubbi qualcosa di molto vicino a entrambi.
I sei protagonisti, quattro uomini e due donne, colti alla sprovvista dalle loro stesse emozioni, accantonano l’idea dell’universo geocentrico tanto cara al genere umano, capace di comprendere solo ciò che il suo cervello può contenere, e la terra quasi cambia fisionomia da lassù. Viste dalla stazione spaziale le nazioni perdono i confini, gli uragani si spostano irrequieti e solo apparentemente senza conseguenze, il cambiamento climatico mostra i primi segnali allarmanti; astronauti e cosmonauti, sbalorditi da quello spettacolo, ragionano come una coscienza condivisa e ferita. C’è Chie, astronauta giapponese, che gestisce il peso emotivo della perdita della madre e che sgomita in un mondo costruito da uomini per uomini in cui nessuna donna potrà mai essere libera.
[…] lo vedi, è una parata di uomini nel pieno della loro mascolinità, con i loro razzi e propulsori e payload e gli occhi del mondo puntati addosso – il mondo è così, un parco giochi per soli uomini, un laboratorio tutto per loro, non metterti in competizione, perché qualsiasi tentativo finirà per farti sentire scoraggiata, inferiore e repressa, perché correre una gara che non potrai mai vincere, perché metterti nelle condizioni di fallire?
Pietro, astronauta italiano, sente la mancanza della figlia e fatica a riagguantare il senso del suo agire e delle cose.
Perché dopotutto chi può guardare il nostro attacco nevrotico al pianeta e trovarlo bello? L’arroganza dell’uomo. Un’arroganza così onnipotente da essere eguagliata solo dalla sua stupidità. E queste navicelle falliche sparate nello spazio sono sicuramente le più arroganti di tutte, i totem di una specie ubriaca di narcisismo.
E c’è anche Roman, cosmonauta russo, che in pochi fragilissimi istanti si riconnette con radioamatori terrestri e si prende cura del suo bisogno di umanità ascoltando domande strane e profondissime a cui non trova risposta immediata.
[…] quando siete nello spazio non vi succede di andare a dormire e chiedervi, perché? Non avete dei dubbi? O mentre vi state lavando i denti quando siete nello spazio.
Orbital è un romanzo che va oltre i generi letterari, lontano dalla fantascienza, prossimo alla prosa contemplativa, che Harvey definisce «space realism», in cui lo spazio assume connotazioni domestiche e funge da ambientazione dell’azione umana come se avesse davvero un senso più grande, invece siamo solo in balia del caso. Non è una constatazione così drammatica se ci si pensa a fondo, è Harvey stessa a cullare chi legge nella consapevolezza che il libro che ha scritto è narrativa “emozionale”, che risveglia il pensiero e un dolore leggero, quello esistenziale di ogni essere umano dotato di almeno minime capacità intellettuali.
Il tempo va avanti con il suo solito nichilismo, ci falcia tutti, straordinariamente insensibile al nostro desiderio di vivere.
Il lavoro narrativo di Harvey è un caso unico e raro nel panorama letterario occidentale, una intuizione fortunata in cui è possibile ancora credere, lontane e lontani dalle formule ripetute dei romanzi di classifica. All’epoca del suo esordio, Dan Franklin, il direttore editoriale di Jonathan Cape, la casa editrice che pubblicò The Wilderness nel 2009 (in Italia inedito), predisse che il talento di Harvey l’avrebbe portata alla vittoria del Booker Prize. Ci sono voluti sedici anni, cinque romanzi e la fiducia incrollabile di un editore che ha saputo guardare oltre e arrivare nello spazio.
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