In ambito musicale, l’utilizzo del termine genio apre una questione delicata, non tanto per l’evidente abuso nel definire ormai chiunque come tale, appiattendo così categoria e concetto in un colpo solo, quanto, piuttosto, per l’indeterminatezza dei confini e delle qualità che l’artista così qualificato debba possedere. E’ il genio realmente misurabile? Difficile dirlo, ma di certo si può provare ad elencarne caratteristiche che lo definiscono, tra le quali, in primis, vi è indiscutibilmente la capacità di innovare, sperimentando. Per il Oneothrix Point Never di Daniel Lopatin tale appellativo è stato così ripetutamente utilizzato da farlo sembrare un epiteto familiare, quasi scontato da abbinare, un po’ come i patronimici greci accostati ai nomi degli eroi nei poemi omerici. In tal senso l’asticella delle aspettative per chi ha un pregresso del genere è certamente posta molto più in alta della media -sempiterna spada di Damocle che pende giustizialista sul capo dell’artista e della sua produzione– con il rischio di sottoporlo ad una analisi critica più severa e attenta. E, in questo caso, a una condanna: il nono (contando anche quello prodotto sotto lo pseudonimo di Chuck Person) album di studio di OPN scende di un gradino rispetto allo standard a cui ci aveva abituati, non trovando mai una reale connessione tra l’astrazione basata sui synth dei suoi lavori precedenti e uno stile più viscerale e abrasivo. Se, presi singolarmente, entrambi questi aspetti funzionano, la loro sintesi è confusa e il risultato è un disco che non ha una vera identità.
Siamo abituati alla produzione di Lopatin come ad un magico artefatto del nuovo millennio, avido nell’assorbire la cultura alta e bassa e a mescolarla sapientemente, traendo influenza da musica un tempo tabù nel panorama elettronico, come nu-metal e stadio pop, neo-soul e new age. In particolare, la recente produzione su etichetta Warp si è distinta per l’eccezionale abilità nel rendere palpabile quella tensione tra il vivere on-line e il vivere in real life. Tradotto poi, dal punto di vista musicale, in uno stile mercuriale, fatto di continui balzi tra il lirico e il noise più estremo, questo si è in breve tempo presentato al pubblico come inconfondibile marchio di fabbrica, ripreso spesso a 360 gradi nella parte video: si pensi al fiammeggiante emoji-drama del video musicale Boring Angel, o alla prestigiosa miniatura epica lo-fi diretta da Jon Rafman come accompagnamento visivo a Sticky Drama. Lopatin ha sempre attinto pesantemente a quella tensione utilitaristica tipica della nostra distopia capitalista, esplorando da un lato la memoria culturale e l’utopismo nascosto all’interno della strumentazione MIDI (oggetti che una volta erano commercializzati praticamente come giocattoli) e dall’altro l’accresciuto, angosciante life-style della prima metà degli anni 2000: non a caso si pone come uno dei (se non il) padri putativi del genere Vaporwave.
Age Of si presenta come una decostruzione enciclopedica della nostalgia digitale e musicale, in linea con quanto sempre fatto. Il problema è che nulla di nuovo pare venga apportato rispetto ai precedenti R Plus 7, prima, e Garden of Delete, poi, consacrazione di uno stile che era ormai stato raffinato all’inverosimile. La musica stessa sembra affaticata, consumata oltremodo da elementi sperimentali che hanno il sapore più di esercizi estetici fini a se stessi che di una reale forza d’urto abrasiva ed estraniante. Questo avatar evocato dal suo negromante, in passato così imponente e magnifico nella sua singolarità, sembra ora impacciato e lento nelle sue movenze, e quando anche Lopatin tenta di di iniettare dosi vibranti di pensiero acceleratore, si muove errante in quel panorama pulp e post-apocalittico di colpo a lui sconosciuto. Quel caos una volta così spontaneo sembra ora strategicamente calcolato, l’alternanza di momenti di pathos e di calma piatta pare una lezione imparata a memoria e ripetuta senza alcuna rielaborazione personale.
Vi sono però spunti interessanti. La scelta di aprire Age Of con un clavicembalo dal suono barocco che viene poi avvolto dai synth e si trasforma in un pezzo glitchy di musica elettronica, è un avvio molto promettente. Purtroppo, il pezzo iniziale è seguito a ruota dall’irritante Babylon che si limita a concentrare la propria attenzione sulle voci sintonizzate in falsetto distorto, che ripetono un banale ritornello (Babylon, è per te che canto / Babylon, nel mare di altre cose). I momenti più graffianti sono raggruppati intorno all’inizio della seconda metà dell’album, con in particolare Warning, tesa a sfondare un equilibrio monotono con un tono acuto crescente, e le percussioni di We’ll Take It suonate come campionature di macchinari pesanti. Ma, forse in parte sulla falsariga della colonna sonora di Lopatin per il film Good Time dello scorso anno, le tracce sembrano seguire una narrazione in cui il filo conduttore è invisibile e il senso di disorientamento, invece di risultare piacevolmente spiazzante, è prevedibile e lievemente fastidioso.
C’è spazio ancora per qualche buon momento, con il raffinato design musicale di RayCats, un sordo raschiare che lentamente si trasforma in una composizione intricata, e con la conclusiva Last Known Image Of A Song, in un finale relativamente cerebrale con contrabbasso e flauto. Queste tracce, insieme a Toys 2 e alla title track, sfruttano i noti punti di forza di Lopatin in un complesso paesaggio sonoro che, a tratti, dà l’illusione di poter appagare la sete di innovazione, mentre segue un percorso piacevole. Il resto di Age Of, come detto, crea più calore che luce con le sue trame rumorose. Anche le numerose collaborazioni di pregio occupano uno spazio ingiustificatamente laterale, nell’economia del lavoro: il pop melodico di James Blake e la serafica voce di ANOHNI sono relegate a ruoli di comparse minori, e della presenza di Prurient non vi è quasi traccia.
E quindi, Age Of cosa? Se vogliamo basarci sul materiale dato alla stampa, l’ultima fantasia futurista del compositore newyorkese avrebbe la pretesa di narrare i cicli dell’umanità, dividendoli in quattro grandi epoche: Ecco, Harvest, Excess e Bondage. Gli incubi in cui OPN cerca di calarci sono però meno vividi di quelli a cui ci aveva abituato e le atmosfere risultano occasionalmente cabalistiche, se non improbabili. Ancor più strano, sembra ci sia la volontà di rianimare a singhiozzo lo spirito di uno stile musicale passato (Bach?), con gran parte della mistica del disco che attinge a piene mani dal pensiero barocco e rinascimentale. Insomma, molti contenuti confusi all’interno di un contenitore che fatica a definirsi nelle forme. Una possibile spiegazione si può forse ricavare dall’intervista rilasciata da Lopatin a The Quietus, parlando di Myriad Industries, il progetto che dovrebbe reinventare il moniker di OPN, trasformandolo in una società di produzione: “Fondamentalmente sono un amministratore delegato”, ha detto il producer “ciò che desidero veramente per questa fase successiva del mio lavoro è di estrarre progetti artistici su larga scala, fabbricando opere d’arte che non sono solo musica”. Ecco, in questo senso all’ambiziosità del progetto non fa da contraltare il livello di sperimentazione di Age Of, che più che un album sembra un portfolio di immagini da presentare. La musica è andata in pausa, ma l’asticella noi non l’abbassiamo, certi che Lopatin continuerà a fregiarsi di quell’aggettivo –genio- che gli spetta di diritto.