Dov’eravamo rimasti? L’ultimo disco dei One Dimensional Man risale ormai al lontano 2011, quel A Better Man che riprendeva un discorso interrotto (come in questo caso) ben sette anni prima. A Better Man aveva dato un nuovo corso alla storia del primo progetto di Pierpaolo Capovilla che, fin dagli esordi, si era fatto alfiere, nella primavera indipendente della musica italiana degli anni novanta, di un suono ruvido e immediato che si rifaceva in maniera manifesta alla grande stagione della musica indipendente americana del decennio precedente (SST Records, Touch and Go, Dischord). A Better Man aveva anche ampliato il suono del trio che si concedeva divagazioni più melodiche, affidandosi ad arrangiamenti meno scarni e più elaborati.
Da quel momento in poi Capovilla non è certo stato con le mani in mano: due dischi con l’altra sua creatura, Il Teatro degli Orrori, l’esordio più cantautorale da solista con Obtorto Collo nel 2014 e, infine, il supergruppo dei Buñuel con Franz Valente, Xabier Iriondo ed Eugene Robinson nel 2016. È proprio da qui, dall’esperienza all’interno di un gruppo che nulla concedeva al pubblico se non la fedeltà granitica a un’idea di rock hardcore e massimalista, che Capovilla sembra aver tratto nuova linfa vitale per proseguire con il suo ”vecchio progetto”. Già lo scorso anno, con il ritorno dietro le pelli del fedelissimo Franz Valente e con Carlo Veneziano alla chitarra, i One Dimensional Man erano tornati in giro per l’Italia con un tour capace di far rivivere il suono grezzo degli esordi. Oggi quell’immersione nei piccoli club italiani si è tradotta in un nuovo lavoro, il sesto della band, You don’t exist, uscito alla fine di febbraio per La Tempesta/Goodfellas.
Fin dall’incipit di Free Speech si viene, infatti, subito immersi in quell’universo sonoro cupo, diretto, plumbeo, metallico dei loro primi album (come anche Dell’Impero delle Tenebre) che si mantiene inalterato anche nella successiva You don’t exist che dà il titolo all’album, un incredibile muro del suono che i tre alzano compatti serrando le fila senza concedere barocchismi e orpelli superflui. Alla batteria di Valente risponde Capovilla, qui ancora una volta anche in veste di bassista, formando una sezione ritmica che resta, a distanza di anni, tra le più interessanti del panorama italiano, con Veneziano a contribuire al costante stordimento sonoro.
Nella trama d’acciaio che unisce tutte le dodici tracce, i tre musicisti riannodano i fili con il loro passato più remoto grazie al recupero di un approccio molto più diretto, rumoroso e viscerale che perde forse inevitabilmente qualcosa della freschezza dei primi due dischi per guadagnarne, però, in una maggiore e più disinvolta qualità tecnica. You don’t exist è un disco che fa della sua ruvidezza una precisa scelta stilistica, insieme alla brevità dei pezzi che scorrono immediati e concisi e nei quali la voce di Capovilla (che come sempre nei ODM canta in inglese) si allaccia alle corde allentate del suo basso richiamando in alcuni episodi, come nella conturbante In Substance, le atmosfere del primissimo Teatro degli Orrori come anche dei Jesus Lizard.
A differenza di esperimenti passati quando Capovilla (da Il mondo nuovo, soprattutto, se non già nel notevole A Sangue Freddo) aveva cercato una strada musicale che ammorbidisse l’impatto sonoro a vantaggio di una maggiore fruibilità come veicolo per temi e testi mai banali, qui la scelta sembra essere più improntata a una coniugazione indissolubile di contenuto e forma. Presentato come “uno spaccato di vita quotidiana nell’oscura contemporaneità in cui insistono le nostre esistenze”, come un “romanzo rock” attraversato dai temi de “la guerra, l’individualismo, l’indifferenza, la disgregazione sociale, le ansie e le angosce d’oggigiorno che ambisce a raccontare le contraddizioni del presente, con un sentimento di riscatto ed emancipazione”, You don’t exist non avrebbe forse potuto essere diverso da com’è: un’esplosione sonora che rinuncia a ogni possibile concessione melodica per scaricare nelle orecchie dell’ascoltatore un fiume ribollente e pulsante di note come piombo fuso, dove dominano l’indignazione, la rabbia e un incessante desiderio di cambiamento politico e sociale.
You don’t exist è un disco nato “per il semplice fatto che era da troppo tempo che non ascoltavamo qualcosa che ci piacesse davvero” per un’esigenza, fortissima, di “resuscitare il rock che più amiamo, quello nel quale intravediamo l’autenticità e la genuinità intellettuale che abbiamo sempre cercato ed al quale vogliamo a tutti i costi ridare continuità storica” come ci ha confidato lo stesso Capovilla.
In quest’ottica trova sua piena collocazione We Don’t Need Freedom, cover dei post-hardcore Saccharine Trust dall’EP Paganicons (nella personale top ten album di Kurt Cobain) che mantiene inalterato il tiro che qui si fa, anzi, ancora più incalzante con la chitarra di Veneziano più libera di trovare una propria voce e in grado di donare al pezzo un’atmosfera meno sporca e malata rispetto alla versione originale.
Trovano spazio anche pezzi capaci di scartare dall’atmosfera dominante: è il caso di A Crying Shame che rispolvera suoni acustici sui quali ha modo di emergere il timbro, qui tenue e disperato, della voce di Capovilla prima dell’ingresso della band e della seconda voce, come anche di Alcohol che, dopo il consueto inizio travolgente, offre, sulle note del basso, uno dei classici siparietti espressionistici-sarcastici cui Capovilla ha abituato il suo pubblico; e, soprattutto, della conclusiva The American Dream, recitativo funebre che snocciola i nomi di quarantaquattro presidenti americani come in un rosario di cupe ambizioni meschine fino all’urlo conclusivo sul nome di Barack Obama e la coda noise sulle parole di Kenneth O’ Keefe, ex soldato americano convertitosi alla causa palestinese.
Il nuovo album è stato registrato e mixato da Federico Grella e dalla band stessa presso i Dirty Sound Studio di Verona con un lavoro notevole capace di tenere sotto controllo tutto il rovente magma sonoro che emerge dai quasi quaranta minuti di musica, fra feedback di chitarra, i colpi precisi e pesanti di Valente e l’abrasività delle corde del basso insieme alle grida e alle risate luciferine di Capovilla.
You don’t exist è un disco capace di far arrivare a chi lo ascolta la musica in maniera quasi fisica, materica come le opere che Michele Bubacco ha donato alla band per l’artwork del disco. Solo apparentemente nostalgico nei suoni, è un lavoro che risulta, invece, assolutamente contemporaneo grazie alla capacità nel dipingere un cupo affresco sonoro attraversato da scariche continue di tensione, di elettricità e di sparute radure di desolazione, sospese in attesa del rumore e della devastazione pronte ad abbattersi.