Tempesta elettrica One Dimensional Man | Sound Music Club, Napoli

È solo a favore dei disperati che ci è data la speranza

[Walter Benjamin]

Chicago, primi anni novanta. Questa sera il Sound sembra una porta spazio temporale capace di farci viaggiare attraverso posti che molti di noi hanno ben presenti nella loro personale geografia. Mappe fatte di luoghi che niente sarebbero se non ci fosse una musica a raccontarli, una musica in questo caso, quella indissolubilmente legata alla leggendaria etichetta Touch and Go Records che riporta alla mente un mondo, nemmeno poi così distante, in cui suonare, da una parte, e ascoltare, dall’altra, avevano a che fare con qualcosa di profondamente viscerale, come un umore scuro e nero che era necessario portare alla luce per farlo esplodere con tratti diretti ed essenziali come a voler marcare il territorio con le proprie convinzioni, il proprio credo, la propria appartenenza, non tanto a un’idea di suono ben definito quanto, e soprattutto, a un modo differente e alternative di stare dentro il mondo.

In Italia a ereditare quel mondo furono i One Dimensional Man di Pierpaolo Capovilla che a metà degli anni novanta, con Massimo Sartor e Dario Perissutti, con un esordio folgorante, portarono nella laguna infuocata dai tramonti acidi di Marghera quella commistione tra post-punk, noise, hardcore e blues che eleggeva padri spirituali e (mauvais?) maîtres à penser gruppi come i Jesus Lizard, gli Scratch Acid e i Fugazi.

Non siamo nella Chicago, dove si esibiva il genio dionisiaco di David Yow ma a Frattamaggiore, provincia nord di Napoli, nel Sound Music Club, che in meno di due anni è riuscito a diventare punto nodale per una certa idea di ascolto della musica e di condivisione di spazi e d’idee. Da un paio di mesi il palco nuovo, più bello e più grande, permette al pubblico di abbracciare letteralmente la band, aperto com’è su tre lati, moltiplicando, così, le possibilità di ascolto, di visuale e di relazione con tutto quello che accade on stage.

A salire sul palco stasera sono proprio i One Dimensional Man che vedono, oltre a Pierpaolo Capovilla alla voce e al basso (strumento che ha rispolverato anche per lo straordinario esordio della superband Buñuel), Franz Valente alla batteria (nei ODM dal 2003 e ne Il Teatro degli Orrori dal 2005) e alla chitarra Carlo Veneziano (anche lui dal 2003 in sostituzione di Giulio Ragno Favero poi bassista ne Il Teatro). Il tour è l’occasione per la band non solo di celebrare la sua storia ma anche di proporre al pubblico nuovi brani che confluiranno nel prossimo disco (l’ultimo, ricco di collaborazioni, A Better Man, risale al 2010).

E sarebbe difficile pensarli diversi i One Dimensional Man, fuori dalla dimensione live che è il loro approdo naturale. Più giusto sarebbe forse parlare di dimensione elettrica e non solo per l’amplificazione degli strumenti ma per la corrente che, come un flusso quasi tangibile, sembra attraversare le vene dei musicisti per diffondersi tra il pubblico in sala. Viscerale, diretta, urgente: questa la musica che i One Dimensional Man vogliono portare in scena. Non c’è quasi spazio per i “sermoni civili” cui Capovilla ci ha abituati con Il Teatro degli Orrori, gruppo che, in realtà, è il vero side project dell’originale più crudo e più grezzo immaginato da Capovilla vent’anni fa.

Eppure, senza necessità di parole, resta forte e tangibile il peso politico che accompagna ogni progetto di Pierpaolo Capovilla e che passa per i dischi realizzati in questi anni, i concerti, i reading di Pasolini e Majakovskij e l’impegno con iniziative dirette come quella contro il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Fino, naturalmente, al nome di questa band che si rifà al saggio di Herbert Marcuse, pubblicato nel 1964. È da quel testo che si capisce ancora di più il valore politico e intellettuale di questo gruppo, che se ne apprezza la carica eversiva, la rivolta che si cela dietro l’essenzialità dei brani e della loro messa in scena, questo provare a svegliare anime e coscienze, fuori dal consumo, dal vuoto contemporaneo, dal ripetersi uguale di gesti e abitudini d’individui/consumatori.

Sarebbe, però, un errore madornale pensare a questo come il gruppo di Capovilla: mentre, infatti, istrionicamente e in abito rigorosamente scuro, il frontman dà il via al suo spettacolo picchiando duro sulle spesse corde del basso e cantando con furia animale, è difficile distogliere lo sguardo da Franz Valente, il batterista triestino classe 1981, dagli occhi spiritati e dal talento innato che in questa musica trova chiaramente le sue radici e la sua casa, come anche al chitarrista Carlo Veneziano che, magrissimo, dialoga con la chitarra in un misto di concentrazione e misticismo che sembra portarlo altrove. Non hanno bisogno di guardarsi, di cercarsi sul palco: l’affiatamento è tutto musicale, istintivo. Senza pausa e a velocità impressionante, accendono le polveri con un avvio di concerto che pesca direttamente dall’esordio omonimo e quindi dalla matrice più rude e grezza del suono della band. Anche quando ripropongono pezzi del repertorio successivo (i ODM ad oggi contano cinque album), come per la manciata di nuovi e convincenti brani, i tre rivestono tutto di una carica adrenalinica fortissima che non lascia tregua all’ascoltatore facendolo precipitare in un abisso sonoro duro, denso, metallico, quanto di più lontano si possa immaginare da certi suoni contemporanei che fanno di una certa leziosità e di arrangiamenti zuccherosi e ammiccanti la loro cifra più riconoscibile.

Qui di riconoscibile c’è un mondo che sembrava perduto e torna a vivere, almeno su questo palco in questa serata, fatto di sudore, di un impatto violento verso gli strumenti e di un’attitudine che, come un’onda d’urto, colpisce in pieno il pubblico dove c’è chi quegli anni li ha vissuti ma anche giovanissimi che cercano scariche di adrenalina tra pogo ed entusiasmo.

Il chitarrista ha qualche piccolo problema di salute ed è costretto a lasciare il palco per qualche minuto ma il pubblico sembra prenderla con divertimento. Capovilla passeggia nervoso sul palco “This is not stage!” – ci dice, senza cambiare lingua e dopo qualche applauso si lascia andare a qualche imprecazione non certo di offesa ma di sfida, divertito e complice, a un po’ di malasorte. Con Valente improvvisa sulla sezione ritmica, quando Veneziano risale veloce sul palco per gli ultimi pezzi ed è encomiabile la concentrazione che riesce a mantenere con straordinaria professionalità nonostante tutto.

La conclusione è affidata a uno dei brani più belli della loro discografia: Broken Bones Waltz, da You Kill Me del 2001. Questa volta Pierpaolo la introduce perché tocca un tema cui tiene particolarmente, “quello della tortura che in Italia – ci ricorda, e noi lo ricordiamo con lui – ancora oggi non è riconosciuta come reato”. Sono poche parole ma necessarie, che lasciano spazio a un valzer inquietante, dal vivo più che mai, vera summa di una poetica e di un’estetica musicale di cui sentiamo ancora oggi, prepotente, il bisogno.

(Tutte le foto di Serena Mastroserio)

Scaletta

  1. Guts
  2. Marianne
  3. Your wine
  4. Best friend
  5. Tom
  6. I can’t find anyone
  7. No North
  8. This man in me
  9. Little baby
  10. Annalisa
  11. Louis
  12. Free speech
  13. You don’t exist
  14. Molotov
  15. Tell me Marie
  16. 1000 doses of love
  17. Saint Roy
  18. Broken Bones Waltz
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