Li avevamo lasciati due anni fa sulle sponde di un Mediterraneo violento ed appassionante. Adesso gli Omosumo li ritroviamo in luoghi molto meno densi, più rarefatti, da qualche parte in un Egitto ipotetico e carico di esoterismo.
Il trio siciliano, dopo quell’esordio al fulmicotone che fu Surfin’ Gaza, ha deciso di lasciarsi alle spalle il continuo movimento delle onde del mare e, voltategli le spalle, si è inerpicato in posti poco abitati dove, lontano da qualsiasi influenza urbana, si è prontamente rimesso a comporre. Il prodotto di questo eremitaggio compositivo è il secondo LP, cui hanno deciso di non dare un titolo, ma che già dalla copertina (tratta da un’opera di Fulvio Di Piazza) rimanda ad una quiete sostanziale.
L’intro Madre Blu (titolo peraltro dell’opera in copertina) è fortemente ermetico con un drone da cui escono fuori rumori senza un ordine apparente.
Certo, il fatto che Madre Blu sia il titolo dell’opera in copertina che raffigura Mehetueret, la dea cosmica della rinascita, una figura molto presente nell’esoterismo egiziano, qualche indizio lo dà eccome.
L’album non tarda ad entrare nel vivo di una delle cifre che lo caratterizzeranno per tutta la sua durata, una psichedelia con molti rimandi ai suoni seventies dell’epopea progressive. Mentre il primo disco ci aveva donato una visione dell’elettronica in chiave mediterranea, ottima anche in chiave dancefloor, qui l’elettronica diventa terreno di sperimentazione non centrale rispetto al percorso di composizione. Certo, una qualche inclinazione verso un suono berlinese resta presente; il synth penetrante che si ascolta in Un po’ di te (il momento più coinvolgente di tutto il disco, secondo chi scrive) ne è un rimando fortissimo, ma questo è solo un mezzo per disegnare scenari più vasti possibile ai vocalizzi di Angelo Sicurella.
La psichedelia dicevo. Come fare a non pensare alla psichedelia quando, già nel primo pezzo cantato, In Cielo come gli Angeli, su un basso pulsante (Antonio Di Martino si conferma un gran bassista), la voce, mentre illustra scenari decisamente onirici, richiama “Lucy in the sky“?
Tutti questi rimandi a categorie preconcette, non facciano pensare però a qualcosa di derivativo. Tutto qui è rielaborato e fortemente personalizzato a comporre un suono ancora una volta molto personale. E può capitare che in un disco che abbia gli echi summenzionati di un suono “Berlin-oriented“, poi abbia come contraltare le poderose chitarre di Roberto Cammarata che mischiate con la voce effettata presente in pezzi come Prima di Andare e Sei Rintocchi di Campane possano addirittura rimandare la mente ai primi Black Sabbath. In ogni caso tutto questo resta solo uno sterile esercizio di catalogazione alquanto inutile vista l’incredibile stratificazione di suoni presente in tutti quanti i pezzi.
Spesso infatti si assiste a profondi cambi di ritmo e di suoni all’interno dello stesso brano (ricordate che prima accennavo al prog?) cosa che fa di ciascuno di essi un vero e proprio mondo sonoro a sè stante.
Mondo che peraltro spesso sembra rimandare a qualcosa di nascosto e più profondo, nella più classica tradizione esoterica. E quando Sicurella canta cose tipo “i vecchi leccano la lingua degli dei, i ciechi ballano la luce che non vedranno mai” sulle note lunghissime suonate dalla chitarra in Tornerà la Polvere, si ha tutta la sensazione di essere al cospetto di un oracolo intento a svelare le sue profezie nella lingua criptica degli iniziati ai riti esoterici.
I testi, questa volta interamente in italiano, sono quindi pienamente funzionali agli scenari sonori creati. Anche quando, alla fine del disco, sul finire di Alle rive dell’est, la voce, su una chitarra appena sfiorata, canta “Chi fiori ha, chi fiori dà sulle rive dell’est, chi fuoco ha, chi fuoco dà sui tramonti di Seth“, strofa già incontrata nella precedente Sui tramonti di Seth, ma che, mentre prima veniva sottolineata da un chitarrone distorto, questa volta viene appena sussurrata, e sembra quasi di trovarsi dinanzi ad una sorta di nenia funebre di commiato.
Da un gruppo che come disco d’esordio ha sfornato Surfin Gaza, non ci si poteva aspettare nulla che fosse quantomeno ambizioso e questa è l’unica aspettativa che i siciliani decidono di rispettare. La scelta infatti di comporre questo disco standosene alla larga da tutto quello che avesse potuto influenzarli ha prodotto ancora una volta un suono molto originale e nuovamente sorprendente, sostanzialmente inclassificabile.
Certo, vista anche la grande stratificazione dei suoni, non si tratta di un disco immediato, ma, piuttosto sembra che gli Omosumo abbiano composto un disco che ad ogni ascolto riveli particolari nuovi.
Se non è esoterismo questo!
Malintenti Dischi, 2016