“La scrittura mi prese completamente. Era l’unica cosa a cui potessi pensare. Non m’importava molto di niente e di nessuno”
Parigi, anni Trenta. Una donna minuta di nome Ella Gwendolen Rees Williams, conosciuta come Jean Rhys, passeggia nella notte, avvolta in un cappotto nero, liso ma elegante. Come i personaggi femminili che delinea scrivendo, questa donna ha la passione per l’alcol e ricerca l’ubriachezza per sopportare il peso della solitudine. A salvarla da sé stessa, dalle voci giudicanti che dall’infanzia le turbinano in testa, è l’autoironia, forma massima di intelligenza emotiva. Nessuno sa che scrive, nessuno sa del quaderno che si porta appresso fin dai tempi in cui viveva a Londra e recitava per guadagnare i primi soldi. In quei quaderni respirano già le sue antieroine, le sue ragazze patetiche e piene di brio, come Sasha, voce narrante di Buongiorno, mezzanotte, pubblicato da Adelphi (traduzione di Miro Silvera), la casa editrice che ci ha donato nel tempo i romanzi ed i racconti più famosi della Rhys.
Se la incontrassimo oggi a Montparnasse diremmo che è fuori moda, a tratti scostante. Non ha nulla delle ragazze allegre che sfoggiano sorrisi sui social. Le mancano i Caraibi, dove è nata e cresciuta tra la tentazione di perdersi nella selvatichezza del circostante e gli indottrinamenti cattolici delle suore, alle quali è affidata dalla famiglia. La sua sregolatezza, la sua curiosità lampante inducono la madre ed il padre, ad un certo punto, ad affidarla alla zia e a mandarla in Inghilterra. È un momento clou dell’esistenza di Jean, che si avvia verso nuovi stimoli e nuove avventure, ma anche verso una tristezza esistenziale di sottofondo, legata anzitutto alla mancanza della natura, della quale ha istintivamente bisogno. Oltre questo, Jean ama Parigi, a differenza di Londra, che dopo un colpo di fulmine iniziale, si rivela impenetrabile. Nella sua autobiografia Smile please (Sellerio editore, traduzione di Anna Maria Torriglia), Jean dichiara tutto il suo amore a Parigi:
“A Parigi l’autunno era incantevole. Mentre sedevamo al sole e mangiavamo spaghetti mi sentivo come uscita da una prigione (…). Preferivo la Rotonde al Dome; era più tranquilla. Mi sembrava più che piacevole l’idea di sedere in pace con una tazza di caffè scorrendo tutti i giornali senza che nessuno mi facesse fretta o mi guardasse in qualche modo particolare. Era così diverso da Londra, mi dicevo. Infatti era proprio questo senso di libertà e il cielo azzurro e la luce che mi rendevano felice e spensierata per la prima volta così a lungo”.
In queste parole emerge l’emotività di Jean Rhys, la gioia sempre collaterale a ciò che vede, a ciò che respira. Proprio l’autobiografia – un’opera che la Rhys intraprende quasi ottantenne per smarcarsi da malelingue, pettegolezzi e false informazioni – ci dà conferme in questo senso. Tutto quel che c’è da sapere su di lei lo scrive di suo pugno e ce lo consegna: l’infanzia, la sensazione di perenne distanza dagli altri, le città, gli amori, gli stenti, la scrittura, i drink, la voce del fotografo che riecheggia nella testa “sorrida per favore. Non così seria”.
A Parigi giunge per sposare un diplomatico. Lo conosce a Londra, dopo la fine della relazione con un uomo molto più anziano di lei che la molla assicurandole però una rendita mensile. Jean non rifiuta il denaro, ma appena riceve la proposta di matrimonio e le si prospetta davanti l’ipotesi del trasferimento a Parigi, spezza la catena con l’ex e si libera dal ricatto economico, da quel simbolo, come lo chiama lei. Nella ville lumière Jean fa i lavori più disparati, le relazioni lavorative ed amorose sono varie e discontinue, diventa madre, si risposa. Non smette di scrivere per sé stessa, finché Ford Madox Ford, editore dell’English Review scommette su di lei. In questo periodo, divisa tra Francia, Olanda e di nuovo Inghilterra, completa Quartetto e Addio, Mr Mackenzie, ma il successo non arriva con questi romanzi. Non è inusuale che gli editori la convochino in redazione per convincerla a modificare passaggi e qualche finale: nessuno ha voglia di leggere di donne malinconiche e iconoclaste che finiscono male. Negli anni Quaranta non si hanno più notizie di Jean Rhys. Finché, nel 1958, si sparge la voce che la scrittrice si sia rintanata in Cornovaglia. Ma è nel 1966 che qualcosa cambia davvero: Jean Rhys pubblica Il grande mare dei sargassi, che viene considerato ancora oggi un capolavoro. In poco tempo, i media non fanno che chiedere di lei, ormai anziana. Le fanno paura le incursioni dei giornalisti, è scettica se le si propongono interviste: la notorietà che aveva inseguito trent’anni prima, bussa alla porta con tutti i crismi. Grazie al lavoro editoriale dei tipi di Adelphi in Italia stiamo riscoprendo una signora della letteratura mitteleuropea che ha fatto della scrittura una vocazione, a prescindere dai riconoscimenti altrui. Amatela, come la amiamo noi.