In un obitorio messicano un prete riporta un cadavere tra i vivi, senza ricorrere ad alcun miracolo, semplicemente accorgendosi che la donna in questione non è affatto morta. Quel corpo arriva dalla Piazza delle tre culture di Tlatelolco, un popoloso e storico quartiere di Città del Messico. In quella piazza, centinaia di anni prima avvenne il massacro degli Aztechi da parte degli spagnoli (1521), un massacro vero, dato che ne morirono quaranta mila per mano dei “conquistadores”. A riemergere dal buio delle palpebre in quel principio di ottobre del 1968, in quella affollata sala mortuaria, è invece la giornalista Oriana Fallaci, testimone, nonché vittima casuale, di un’altra carneficina, quella dei militari messicani ai danni dei manifestanti, in gran parte giovani del movimento studentesco, in protesta insieme ad altre significative parti del popolo messicano, contro le spese sostenute per la costruzione degli impianti sportivi che qualche giorno dopo avrebbero ospitato i Giochi Olimpici.
È il 1968, e la gente è in piazza ovunque, sull’onda lunga del maggio francese. Nella piazza di Tlatelolco però, si spara ad altezza d’uomo, per colpire, e i morti non sono quantificabili con precisione, certamente diverse decine, più verosimilmente, alcune centinaia. Il giorno di quella strage il calendario segna il 2 di Ottobre, pochi giorni dopo, dal 12 al 27 dello stesso mese, ci saranno le gare olimpiche, quelle che racconteranno di medaglie, di storie umane e sportive e di gesti epici, di uomini e donne, prima ancora che atleti e atlete, come quello della ginnasta cecoslovacca Věra Čáslavská, che nel momento dell’inno sovietico dedicato alla sua collega di podio, tiene la testa abbassata in segno di protesta per l’invasione del suo paese da parte dell’URSS, gesto che pagherà con il ritiro dalle gare e il divieto di viaggiare per oltre dieci anni. In questi giochi però c’è soprattutto un’immagine che ruberà la scena per anni, una foto destinata ai libri di storia, una foto che hanno visto tutti almeno una volta. È una foto che contiene una storia nascosta bene, quasi invisibile, seppure lì, sotto gli occhi di tutti.
La gara è quella dei 200 metri e i due favoriti sono entrambi americani, neri, provenienti dalla California, dalla cosiddetta “Speed City”, così era soprannominata l’Università di San Josè, per il suo continuo sfornare velocisti. Ma i due non sono solo i piedi più veloci d’America, hanno anche degli ideali che perseguono e che non vogliono tenere fuori dallo sport. Tommie Smith è alto e magro, ha voti ottimi al college, è anche un po’ dislessico, ma agli insegnanti non interessa, è lì per correre, e in pista uno più veloce di lui non esiste, può addirittura puntare ad andare sotto i 20 secondi netti nei 200 metri. L’altro, John Carlos, non studia molto, non è introverso, e fa casini, ma in una prova pre-mondiale corre sotto i 20 secondi, solo che a causa di scarpe non regolamentari che aumentano l’attrito, il record non è riconosciuto. Ma è chiaro, la sfida in Messico sarà tra loro due e Tommie non è più tranquillo e certo della vittoria. I due però non sono addomesticabili, vogliono un mondo più giusto, per tutti in generale, ma soprattutto per i neri, ancora fortemente discriminati, e così prima di partire per le olimpiadi entrano a far parte del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, isieme a tanti altri atleti, in maggioranza neri, ma non solo, e formulano delle richieste, pongono delle condizioni.
Le più importanti sono l’esclusione del Sudafrica e della Rhodesia dalla competizione olimpica in quanto stati razzisti, la restituzione al pugile nero Muhammed Alì della cintura di campione dei pesi massimi , toltagli dopo il rifiuto di partecipare alla guerra in Vietnam, la possibilità che anche i neri possano diventare allenatori delle squadre sportive americane, le dimissioni del presidente del comitato olimpico internazionale Avery Brundage, sospettato di razzismo e soprattutto organizzatore delle olimpiadi naziste del 1936 a Berlino, la possibilità per gli atleti neri di potersi iscrivere al New York Athletic Club, che contava ottomila atleti, tutti bianchi. La battaglia andava oltre lo sport e chiedeva anche la possibilità per gli studenti neri di avere degli appartamenti in affitto e di poter partecipare a gruppi di studio misti, mettendo fine a una vera e propria ghettizzazione. Di tutte queste richieste solo l’esclusione degli stati razzisti dalla competizione verrà accolta, e nell’ultima assemblea la maggioranza dei componenti del Progetto Olimpico per i diritti umani voterà contro il boicottaggio dei giochi, quindi, nonostante tutto, si parte per le gare.
Non è difficile immaginare che quella sfida tutta americana, iniziata nelle gare di qualificazione, potesse essere anche l’epilogo della competizione mondiale sui duecento metri. Infatti, mentre l’America è infiammata dalle proteste e dalle marce per la pace e l’uguglianza, tra momenti drammatici, come le esecuzioni di leader politici, a cominciare da quelli neri, ma anche di semplici cittadini con la sola colpa di essere neri, e momenti di lotta e aggregazione a suon di canzoni e festival che faranno la storia, sulla pista di Città del Messico si confrontano gli atleti più veloci del pianeta. Da decidere sembrerebbe esserci sotanto l’ordine delle medaglie, d’oro e d’argento dei due velicisti a stelle a strisce.
Peter Norman è bianco, e anche lui corre veloce, più di tutti gli altri in Australia, nessuno gli sta vicino quando punta il traguardo. A Città del Messico è anche lui della partita finale. Il suo tempo sui duecento, poco sopra i venti secondi, ha pochi rivali. In quella manciata di secondi, dopo il via dello starter, Peter Norman recupera diverse posizioni dopo una cattiva uscita dai blocchi di partenza, e nel rettilineo finale vola, e supera tutti, tranne uno. Le posizioni sul podio non sono come l’America si aspettava, Norman è secondo e conquista l’argento, non raggiunge Smith che si prende l’oro, ma supera Carlos che si ferma al bronzo. Alla storia è passata più l’immagine della premiazione che quella della gara. Gli occhi del mondo intero hanno visto quel podio, con gli americani, scalzi, alzare al cielo il pugno nero guantato alla partenza dell’inno americano. I due atleti si sono schierati in mondo visione col balck power, con le nascenti Pantere Nere, contro il razzismo e la discriminazione, l’hanno fatto con un gesto memorabile, seguito a quello precedente sulla pista. Quel gesto lo pagheranno entrambi, riceveranno ritorsioni e boicottaggi di ogni tipo, salvo poi essere in parte riabilitati. Quello che però si nasconde nelle immagini e in questa storia è la vicenda per certi versi ancora più epica di Peter Norman, il bianco con l’argento al collo. E per scoprirlo bisogna fare un salto nel tunnel, ai momenti precedenti l’uscita nello stadio, a quegli attimi prima di salirci su quei gradini del podio.
“Chiediamo scusa per le leggi e le politiche di successivi parlamenti e governi, che hanno inflitto profondo dolore, sofferenze e perdite a questi nostri fratelli australiani. Chiediamo scusa in modo speciale per la sottrazione di bambini aborigeni dalle loro famiglie, dalle loro comunità e le loro terre. Per il dolore, le sofferenze e le ferite di queste generazioni rubate, per i loro discendenti e per le famiglie lasciate indietro, chiediamo scusa. Alle madri e ai padri, fratelli e sorelle, per la distruzione di famiglie e di comunità chiediamo scusa. E per le sofferenze e le umiliazioni così inflitte su un popolo orgoglioso e una cultura orgogliosa chiediamo scusa.”
È il 2008 quando il neo primo ministro australiano Kevin Rudd presenta le scuse ufficiali alle popolazioni Aborigene. Peter Norman però, nel 1968, in quel tunnel messicano, questa storia la conosce e sa bene le angherie che quella popolazione sta subendo da anni, e capisce bene le discussioni tra gli atleti neri americani circa le battaglie di civiltà. È Norman a consigliare Smith e Carlos di dividersi il paio di guanti mettendone uno a testa, ed è sempre Norman che chiede di avere una spilla anche per lui, di quelle del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, da appuntarsi sul petto esattamente come i suoi due colleghi. Paul Hoffman, un atleta bianco del team Usa di canottaggio assiste alla scena e decide di cedere la sua spilla a Norman per la premiazione. Quella spilla appuntata sulla tuta verde australiana, spicca in mondo visione, anche se l’attenzione, in quei momenti è tutta rivolta ai gesti di ribellione e rivendicazione di Tommie e John. Nel 1968, nel bene e nel male, non si andava troppo per il sottile, e Tommie e John insieme a Hoffman, vengono sospesi dalla squadra americana e cacciati dal villaggio olimpico. Solo in seguito i due velocisti verranno riabilitati, potendo così raccontare nelle scuole le ragioni del loro gesto , oltre che dare ancora un contributo come allenatori negli anni a venire, a giovani atleti. A loro due sarà eretta addirittura una statua a completamento della loro totale riabilitazione. Una statua che per l’ennesima volta però rende monca questa storia, perché su quel podio di pietra non c’è traccia di Norman. Eppure è quello che ha pagato più di tutti. Quella spilla appuntata sulla tuta austrliana non è andata giù ai poteri forti del suo paese che cominciano a punirlo e boicottarlo, e nonostante nessuno corresse più forte di lui (il record è sempre il suo), gli viene impedito di partecipare alle olimpiadi successive di Monaco del 1972. Ma non è solo questo il prezzo che Peter ha pagato. All’indomani della mancata convocazione, deluso, decide di lasciare l’atletica. Viene ostacolato in qualsisi tentativo di rimettersi in gioco anche in veste di insegnante o allenatore. Sperimenta nuovi e per lui improbabili mestieri, come quello del macellaio o dell’attore di teatro. Un infortunio curato male rischia di sfociare in cancrena mettendolo fuori gioco anche dalle gare amatoriali, e avvicinandolo pericolosamente all’abuso di farmaci e alcol.
“Se a me e Tommie ci presero a calci nel culo a turno, Peter affrontò un paese intero, e soffrì da solo.” John Carlos
Di tanto in tanto il “potere” gli concede la possibilità di riabilitarsi, ritrattando il suo sostegno alla lotta di Smith e Carlos, ma lui non lo farà mai, sentendo quella lotta anche la sua. Nel 2000 a Sydney si inaugurano le Olimpiadi, e il più grande sprinter australiano, nonché detentore del record nazionale, non viene neanche invitato. Peter Norman muore nel 2006, in solitudine, a casa sua, da detentore del record. La riabilitazione da parte del suo paese sarà postuma e tardiva. Ma a sorreggere la sua bara insieme ai familiari ci saranno, al suo fianco, ancora una volta Smith e Carlos, a ricomporre per l’ultima volta quel podio leggendario che ha insegnato quanta dignità e quanto amore per il bene di tutti ci possa essere in duecento metri e venti secondi.