Con i gorgoglii e le lisergiche stravaganze di Memory Of A Cut Off Head ancora nell’aria, John Dwyer non perde tempo, come di consueto, e ci regala la ventunesima fatica della sua frenetica e schizofrenica carriera musicale. Dopo aver inaspettatamente riesumato gli OCS (uno dei tanti side project dedicato ai capricci più rilassati e bucolici), e aver reintegrato nella line-up ufficiale Brigid Dawson (cori e tastiere) un grosso interrogativo incombeva sulla band californiana. Smote Reverser è la conferma, il terzo e ultimo indizio del cambio di rotta degli Oh Sees. Non una vera e propria curva a gomito nel percorso artistico, ma un aggiustamento, per così dire. Se infatti Smote Reverser offre un compendio completo di tutte le inclinazioni della band e ripercorre da capo a piedi le varie fasi dello sviluppo artistico dei nostri, d’altro canto non si può negare come brano dopo brano emerga una spiccata prevalenza della vena tipicamente prog e psych-rock. Senza raggiungere la rarefazione e le atmosfere celestiali delle recenti evasioni targate OCS, vengono comunque limitate le sfuriate rancide e arrugginite di chitarra e il terrorismo sonico che avevano dominato l’ultima fase della band, così come anche il tanto caro sound garage viene retrocesso a semplice comparsa.
L’apertura è affidata a due brani-manifesto della grande varietà stilistica della band. Troviamo qui riassunte tutte le influenze tipiche del paradigma Oh Sees: sound angoscioso e lugubre, atmosfere apocalittiche post-industriali ed elettronica ritornante fanno da apripista alla sinistra e peculiare voce di Dwyer, come sempre efficace e sufficientemente disturbante da alimentare quella piacevole tensione nell’ascoltatore. Ma non tardano a ritagliarsi un ruolo predominante le derive psichedeliche già accennate, tra gorgoglii, organi e più concilianti atmosfere campestri. Qua e là, accordi garage e lamenti di elettriche al vetriolo completano la carrellata, quasi a voler dare un ultimo, dovuto commiato.
In realtà torneranno con la loro energia primordiale a ringhiare e a mostrare i muscoli per ben due volte, in Overthrown e Abysmal Urn. Due rigurgiti del passato recente a cui Dwyer non ha saputo rinunciare.
Ma a colpire di più è sicuramente il recupero di quel piacevole sound sunshine-pop che guarda dritto ai primi lavori della band, Castlemania su tutti. Già in C, primo singolo estratto, l’aria si fa più leggera e rilassata e un ritmo quasi funky accompagna il rientro in scena della vena ludica e naif che da tempo non trovava tanto spazio. Da qui in poi, tutto l’album risentirà positivamente di questo ritorno alle origini, con spruzzate qua e là di coretti in falsetto (bentornata Brigid!), chitarre squillanti, melodie scanzonate e passaggi al limite del surf-rock. Ancora una volta Dwyer si dimostra un maestro nel coniugare la sua vorace passione per il revivalismo con un continuo e inarrestabile processo di crescita e di sviluppo di una sua propria identità musicale. La tradizione – che qui non si propone solo come ritorno alle origini, ma anche con forti riferimenti ai classici del rock anni Sessanta e Settanta (Led Zeppelin, Pink Floyd, Syd Barrett, Beatles) – viene continuamente rielaborata e attualizzata, senza mai cadere in un banale citazionismo.
Smote Reverser, tuttavia, affonda le proprie radici nel progressive e nella sperimentazione psichedelica. Dai tempi di The Hounds Of Foggy Nation abbiamo imparato ad apprezzare questa sfaccettatura dello stile musicale del gruppo californiano. Ma ascoltando questo disco non si può più parlare di semplice sfaccettatura. La scelta di Dwyer è evidente: il prog e la sperimentazione diventano elemento dominante del’universo Oh Sees e il frontman raggiunge un livello di maturità compositiva davvero notevole. Prendiamo Anthemic Aggressor, una lunga suite strumentale in cui trovano spazio dodici minuti di sperimentazioni psichedeliche. Tra elettronica angosciante, sirene industriali, sound robotico e influenze kraut si inseriscono assoli Hendrixiani, continui cambi di ritmo, organi e fiati. L’incedere è ora lugubre e minaccioso, ora lisergico e bucolico, con momenti di chiara ispirazione floydiana. Ad essere onesti, il pezzo si avvicina un po’ troppo spesso al virtuosismo fine e se stesso eccedendo nelle sperimentazioni e fatica a scorrere via liscio: insomma, dodici minuti sono lunghi e si sentono tutti. Ma è chiaro come Anthemic Aggressor sia un passaggio fondamentale per Dwyer, funzionale allo sviluppo della nuova identità prog.
Nuova identità che raggiunge la sua più algida espressione in Last Peace. L’incedere lento della ritmica, gli archi e gli organi cullano il pubblico in una vera e propria jam psichedelica. Le melodie sono rassicuranti, con gli ormai consueti gorgoglii elettronici e le atmosfere lisergiche beatlesiane. Last Peace è un vero e proprio viaggio coinvolgente, emblema del livello raggiunto da Dwyer e lascia intravedere un futuro prossimo davvero luminoso.