Nonostante le voci della reunion con formazione originale degli Smashing Pumpkins si rincorrano ormai da anni, il 13 ottobre è uscito Ogilala, il nuovo lavoro solista di Billy Corgan. Anzi no, shame on me, di William Patrick Corgan, perché pare che a 50 anni suonati il nome che l’ha accompagnato per tutta la sua sfavillante carriera non possa più essere usato in presenza del nostro, che pare si incazzi, e pure di brutto. E se questo serve a segnare un punto, doloroso, alla suddetta sfavillante carriera, allora mettiamolo sto punto.
Ma andiamo con ordine.
Una settimana prima dell’uscita del disco dal bizzarro nome che a tanti ha ricordato il giochetto di Ovolollo (se non avete idea di cosa stia dicendo, tranquilli, siete semplicemente troppo giovani) inizio a trovare sull’internet dei commenti piuttosto entusiasti. “Un disco emozionante” ,“Canzoni che ci riportano indietro a Mellon Collie” . Amici che conoscono bene la mia ossessione passione per gli SP mi linkano live in cui mi assicurano che Billy, William, il pelato insomma, “è in ottima forma, e le esecuzioni dei pezzi vecchi sono da lacrime”. Immagino intendessero commoventi. Inutile negare che qualche aspettativa, seppur pallida, il mio cuore la nutrisse. Il giorno dell’uscita ufficiale, il ritorno del mio amato non è il pensiero fisso che mi accompagna a lavoro. Ovviamente lo ascolto il disco, ma non è nemmeno la prima cosa che faccio appena torno. Temporeggio, come quando percepisci che il tuo ragazzo è incazzato e in macchina pensi che ti toccherà litigarci: non lo fai 4 volte il giro dell’isolato?
Intendiamoci, Ogilala non è un brutto disco. Dopo le sbandate delle puntate precedenti (dal manierismo di The Future Embrace, all’inutilità di tirare su una band di fuoriclasse per far suonare loro delle canzonette con gli Zwan, agli imbarazzanti ultimi tre capitoli della discografia delle Zucche, che ogni autentico fan ritiene chiusa e sigillata con Machina), con un bagaglio piuttosto pesante di esperienza, culminato con la nascita del primo figlio, e anni sulle spalle, Corgan sembra ritrovare una vena intimista e una genuina voglia di mettersi a nudo senza troppi abbellimenti di sorta. Da questa dichiarazione di intenti scaturisce un lavoro sincero, composto di brani scarni in cui spesso la sua fragile voce è accompagnata dalle sole note di un pianoforte, o di una chitarra (non solo la sua, ma a tratti anche quella del ritrovato amico James Iha). Tutto ciò, in effetti, non può che ricordare alcuni momenti della discografia dei Pumpkins. Per dare ulteriore credibilità al progetto viene scomodato addirittura Rick Rubin.
Fin qui tutto bene. Apparentemente.
Perchè il nostro redivivo ha deciso di dare alle stampe il suo Ogilala una manciata di giorni prima dell’anniversario dei 22 anni dall’uscita di un disco che ha segnato la storia della musica dei 90’s, che sebbene con la lucidità di questo ventennio che mi separa dalla sua scoperta riconosca come il risultato di una mente ego maniaca, è stato indubbiamente la dimostrazione tangibile di un grande talento compositivo e di una rara sensibilità. Esattamente quel Mellon Collie & The Infinite Sadness che viene chiamato in causa come metro di giudizio, ci mette davanti alla disarmante verità: quel Billy non esiste più.
E non basta spazzare via quel nome, sempre troppo bonario associato alla sua figura di canzoniere triste e tormentato, per un più altisonante William Patrick, perché la sensazione di fondo, purtroppo, è che di corposo non resti altro che quel nome di battesimo. I momenti della citata discografia delle Zucche non sono sempre altissimi, e proprio Mellon Collie, complici i 28 (ventotto) brani di cui è composto, ne è l’esempio. Se in quel frangente lo possiamo perdonare, perché accostato a perle di rara bellezza, quando invece un intero album è fatto, per parafrasare Shakespeare, della stessa sostanza di cui sono fatti gli scivoloni, quello che resta dopo tanti ascolti è solo la noia.
Cosa possiamo rispondere a chi dice che Billy è tornato, se non che questa è la versione pallida e sciacquata di colui che ha scritto dei frammenti indimenticabili della musica degli ultimi trent’anni? Come possiamo ignorare che la sua voce non è intima e flebile, semmai quel suo tono nasale sembra sempre più l’avvisaglia di un polipo al naso? Forse solo che a cinquant’anni suonati, dopo aver scritto frammenti indimenticabili di musica, può permettersi davvero di fare il cazzo che gli pare, pubblicando un disco mediocre ma continuando a suonare live sold out. E questo, signori, è in pieno stile despota pelato. Forse allora, è tornato davvero.