Inedito anche in Francia fino al 2006, L’attentato di Sarajevo è il primo romanzo del sociologo di formazione, documentarista, poi saggista, enigmista, sceneggiatore, regista, personaggio imprevedibile e acuto analista della società contemporanea che fu il grande scrittore francese di origini polacche Georges Perec. In qualche modo ritratto dell’artista da giovane, capace di illuminare i primi passi artistici di un autore cardine della letteratura del novecento – si pensi solo all’Oulipo, l’Opificio di Letteratura Potenziale, con Italo Calvino, Raymond Queneau e altri scrittori, dove venivano creati e sperimentati giochi narrativi, linguistici ed enigmistici – arriva finalmente in Italia per i tipi di Nottetempo che, con questo titolo, inaugura anche la nuova veste grafica all’insegna della leggerezza e della leggibilità. L’attentato di Sarajevo è un volume snello, circa 150 pagine, che colpisce per la grafica insieme elegante ed essenziale, la carta bianca opaca su cui spicca una foto di una donna, una ragazza dai capelli corti e dal bel viso illuminato da un raggio di sole (Saul Leiter, Ana, 1950s; © Saul Leiter Foundation). E al centro del romanzo c’è proprio la conquista di una donna – la bellissima jugoslava Mila, che “mi scivolava sempre tra le dita, sfuggiva ogni volta alla definizione in cui tentavo di confinarla. Forse, in parte, è anche per questo che me ne innamorai” – contesa tra il suo connazionale e amante, Branko, e un giovane ragazzo francese che la segue fino a Sarajevo dopo averla incontrata a Parigi.
Il romanzo fu scritto da Perec ad appena ventun’anni di ritorno da un viaggio che fece in Jugoslavia e nel corso del quale divenne amico di un gruppo di artisti serbi. Mai pubblicato, è arrivato a noi attraverso due copie: la prima, pervenuta grazie all’intermediazione di Jean Duvignaud, insegnante di Perec al liceo di Étampes; la seconda, grazie a una coppia inglese, gli Harris, i quali erano riusciti a fotocopiarne una copia carbone posseduta a Belgrado da Mladen Srbinović. Due versioni che differiscono solo per le cancellature operate dall’autore stesso, in maggior numero nella copia di Duvignaud (e filologicamente segnalate nel testo).
Ancora una volta devo confessare di non essere stato sempre onesto. Ho nascosto alcune cose, cose da niente comunque, paragoni fortuiti, associazioni insolite, perché avrebbero potuto indurre a dare di quest’avventura un’interpretazione che giudicavo falsa e un po’ pericolosa.
L’attentato di Sarajevo – unica opera di Perec non ancora pubblicata in Italia – ha tutti i pregi (e i difetti) di un romanzo giovanile: l’urgenza in primis sprigionata da ogni pagina, l’autobiografia visibile nella filigrana filtrata dall’invenzione artistica, come anche alcuni tratti che poi diventeranno peculiari: un continuo rivolgersi al lettore e il finale aperto che lascia immaginare – ma non racconta – l’esito di un piano che si vorrebbe diabolico ma che strappa un sorriso davanti a un protagonista giovane, vitale, disonesto, a tratti infantile che forse più che amare è attratto dalla sfida, dalla rivalità, da uno scontro sul quale formarsi e nel quale misurare il suo fascino e la sua forza di uomo.
Stavolta, era finita. In un angolo dell’atelier, presi una tela vergine, preparai dei colori e iniziai a dipingere. Dipinsi tutta la notte, ricominciando, rifinendo, assassinando incessantemente lo stesso viso. Accesi la radio; dopo un’ora di sforzi, riuscii a prendere Parigi, o almeno una trasmissione in francese. Tentai di scrivere una lettera…
L’attentato di Sarajevo è un romanzo capace di catapultare il lettore nelle atmosfere di un mondo che oggi possiamo solo immaginare e sognare e che all’epoca era invece straordinariamente vivo e reale. La voce narrante, Mila, il pittore Sreten, lo stesso Branko sono i protagonisti di notti bohémienne, cullati dalle note di Billie Holiday e della Sesta Sinfonia di Beethoven, di sbronze solenni – bottiglie di Raki, Rémy Martin degli addii e dei ritorni, bevendo ljuta dopo ljuta, cognac dopo cognac, e fumando sigaretta dopo sigaretta – di riflessioni crepuscolari sulla rivalità maschile e sull’amore per le donne dipanando pagina dopo pagina dinanzi ai nostri occhi un paesaggio che mescola l’ultima coda del romanticismo al bianco e nero di un film della Nouvelle Vague.
Ebbi all’improvviso, senza sapere perché, l’impressione di una qualche catastrofe imminente. Non ho mai preso in considerazione seriamente le illuminazioni improvvise; non credo né ai presentimenti, né ai sogni premonitori. Tuttavia ne rimasi colpito. Oggi, posso forse dire che non mi sbagliavo. Questa precisazione è inutile: se non ci fosse stata nessuna catastrofe, perché allora cercherei di ricordarla?
Ma allora perché quel titolo? Senza svelare nulla al lettore, a un certo punto apparirà chiaro come le pagine dominate in gran parte dalle atmosfere della gioventù, della conquista, dell’immutevole danza del corteggiamento cambieranno colore virando verso il nero della macchinazione, della trama oscura, della trappola dove ogni cosa è concessa. Ed è così che il romanzo si apre a digressioni – in forma di un’accorata perorazione – verso quei giovani slavi che nel 1914 con l’attentato di Gavrilo Princip offrirono sì, il pretesto per lo scoppio della Prima Guerra Mondiale ma che per Perec rappresentavano soprattutto degli idealisti capaci di lottare per la libertà della loro terra dal dominio austroungarico – E lui sa, il solo sopravvissuto di quei cinque uomini che si appostarono un giorno di giugno lungo la Miljacka in festa per assassinare il figlio del loro imperatore, lui sa che il gesto di Princip non è stato inutile, perché adesso la Jugoslavia esiste.
Di là forse dalle ingenue speranze che Perec riponeva ancora nella giovane Jugoslavia – sarebbe morto nel 1982 risparmiandosi lo sguardo sull’orrore delle guerre balcaniche – è alla libertà della gioventù che questo libro sembra dedicato, a un’epoca forse irripetibile per lo stesso autore. È così che L’attentato di Sarajevo è capace di parlare ancora oggi al lettore, nel suo raccontare una storia di libertà, di passioni, di amicizia e – perché no? – anche di capricci ed egoismi che sono in fondo i pastelli con cui colorare ogni ritratto della giovinezza.
Andiamo, ancora un’ultima frase, ancora un ultimo sforzo. Siamo all’atto finale. Un’ultima confessione, un’ultima menzogna, forse. Poi, che tutto cada nell’oblio. Che Mila, Anna, Branko non siano mai esistiti! Io non sono mai stato a Belgrado. Non conosco Sarajevo. Non capisco di cosa parlate, io parlerò solo in presenza del mio avvocato!