Il mondo si divide in due categorie di persone, dice Seligman, che per tutto il film sarà la voce fuori coro di Nymphomaniac, il confidente asessuale della convulsa storia di Joe: quelli che tagliano prima le unghie della mano sinistra, che fanno una scelta facile, comoda, istintiva, lasciando la mano difficile per ultima (per i mancini valga il viceversa); e quelli che si dedicano prima alla mano destra, ai percorsi intricati. Con questo film Von Trier sceglie di iniziare dalla mano destra. E’ un film complesso, mettiamo da parte tutti gli stereotipi sul fatto che si tratti di un porno: è solo il marketing che l’ha reso un film sul sesso, ma in realtà racconta una malattia, una dipendenza, una storia scandita da capitoli in due volumi con una scelta tarantiniana, in cui il tema centrale sembra essere la moralità.
Cosa è giusto e cosa è sbagliato?, sembra chiederci Von Trier, che ha un atteggiamento di comprensione per l’umanità e le sue intime perversioni non perdonabili dalla società in cui viviamo, comprensione che se ne ricava anche dai lunghi appassionati dialoghi tra Seligman e Joe. Viviamo in un mondo che si dà continue risposte su tutto, che è intasato a volte di informazioni e nozioni, anniversari e ricorsi storici, piccoli racconti no sense e deviazioni, ma che a volte sembra mancare di quella profondità che ritroviamo in una piccola chicca come questa. Viviamo in un secolo che ha perduto la direzione delle sue domande profonde, ritrovarle tutte sullo schermo attraverso la storia di una ninfomane fa quasi l’effetto di un bel risveglio. Viviamo in un momento che depreca la cultura, che la tratta con una sufficienza e un’arroganza da senza speranza. Con Nymphomaniac è come se tornassimo a respirare per un attimo. Quello che impressiona è la grandezza dei temi che Von Trier riesce a riproporre in quattro ore, come davanti a un romanzo russo. Non c’è condanna per la collezione delle perversioni umane, anche un pedofilo può essere giustificato se trattiene i suoi moti per tutta la vita, anzi vive una pessima esistenza perché è costretto a trattenere quell’istinto sessuale. Persino il sentimento dell’amore per Joe diventa qualcosa da trattenere, da rinnegare, almeno nella prima parte del film, finché non cede a Jerome, ma senza riuscire a superare quella dipendenza che la renderà così sola per tutta la vita.
Quando ha presentato Melancholia a Cannes Von Trier è stato autore di una delle cose peggiori per un uomo che sta tenendo una conferenza stampa di presentazione per un film: ha detto che capiva Hitler. Stava scherzando, o almeno così si è giustificato in un secondo momento: del resto Von Trier è un provocatore, e Charlotte Gainsbourg ci tiene a ribadire il piacere di lavorare con un uomo che gli ricorda il fare sopra le righe del padre (Lemon Incest fu una grande prova per la storia della provocazione al senso comune). Anche qui ritroviamo nei discorsi di Joe alcune grandi provocazioni all’umanità: la libertà di essere se stessi e senza condizioni, i vincoli dell’ipocrisia umana, le parole senza censura da usare al momento giusto. Il suo interlocutore, uomo di lettere e cultura, Seligman è più restio rispetto al potere delle parole, ma man mano che il racconto della vita di Joe prosegue sembra quasi tentato a cambiare opinione sul giudizio comune, tant’è che poi sul finale ci riserverà una sorpresa. Ciò che colpisce è la profonda solitudine di questa donna, piena di amanti occasionali, incapace di gestire una qualsivoglia responsabilità (una famiglia, un figlio, una relazione): l’unico rapporto reale di Joe sembra così essere quello col padre, che resta quasi immacolato dalla sua voglia infinita di lussuria.
Al di là delle considerazioni piuttosto carnali e materiali che escono dalla pellicola, molta parte della storia è incentrata però sull’aspetto umano e religioso, tanto che spesso vengono evocati richiami al cattolicesimo e alle sue derivazioni, come la scissione con la Chiesa d’Oriente di quella occidentale. L’ossessione monomaniacale per la censura dell’istinto sessuale delle religioni diventa argomento di riflessione a tutto tondo. In un’epoca che si fa portavoce di una liberazione totale dei costumi, tuttavia il film riesce comunque a scandalizzare lo spettatore, ponendolo di fronte a tutte le sue intime contraddizioni. In che modo ci poniamo oggi di fronte alla libertà di parole, costumi, sesso; in che modo rispondiamo a domande come quella sull’esistenza di una morale insita nello spirito dell’uomo; in che modo reagiamo al racconto di una donna che a tratti pare assorta da un senso di colpa inevitabile per il modo in cui ha scelto di vivere. Il senso di colpa che la rende sola.
Dall’altro lato i personaggi che si alternano sullo sfondo della vita di Joe sono comparse occasionali che riempiono a turno quel vuoto, l’eterna mancanza di una radice, che poi è quella che viene dalla perdita del padre (una radice che a tratti si ritrova solo grazie alla natura e alla sua contemplazione). Uma Thurman, che appare con un cameo in forma strepitosa, rappresenta per un attimo l’alter-ego della protagonista, l’eroina negativa della donna lasciata, ma che ha preso sul serio le sue responsabilità di donna: ci ha provato, e ne è rimasta sconfitta. Non che a Joe le cose vadano per il verso giusto. In fondo la rappresentazione delle infinite possibilità di scelta che fa Von Trier ci fa indagare sulla profonda verità della casualità dei nostri percorsi. Non c’è verso di capire chi l’abbia vinta alla fine, anche se tutto torna a interagire con l’idea sovrannaturale di un karma punitivo.
E’ lungo il film, è lungo il suo percorso, potreste anche rischiare di annoiarvi: ma la colonna sonora riesce a risvegliare nei momenti inaspettati. Però, se cercavate il porno, potreste restare delusi.