Esistono storie; storie che possono essere raccontate in segreto al cospetto del silenzio o davanti a qualcuno – un compagno d’avventure o di solitudini – che sia disposto ad ascoltarle. Ed esistono poi ossessioni che si differenziano dalle prime perché – pur immerse nel medesimo canovaccio, sono però accese dalla fiamma autentica delle passioni che consumano, di quelle che sostituiscono al verbo potere quello implacabile del dovere; che devono, dunque, non soltanto essere raccontate ma urlate, come legati all’albero maestro di una nave, in spregio a ogni possibile canto di sirena che tenti di condurci lontano dalla nostra meta.
Quest’ossessione in Flavio Giurato prende il nome e il cognome dell’avventuriero per eccellenza, l’Ulisse in carne e ossa nato a Venezia nel 1254 e, sempre con lo sguardo rivolto al grigio perlaceo della laguna, morto l’8 gennaio del 1324. In mezzo a queste date una vita che è stata un grande e incessante viaggio: mercante, ambasciatore, semplice sognatore che sa come ogni viaggio inizi molto prima del momento in cui si salpa e finisca ben dopo ogni possibile approdo.
Marco Polo ha segnato in maniera decisa la carriera – e viene da dire – la vita del più carsico tra i nostri cantautori, definizione stretta per un artista quale Giurato ha dimostrato di essere nel corso di una carriera quarantennale eppure caratterizzata da una lunghissima pausa centrale, che passerà proprio per il fallimento annunciato – quasi un suicidio commerciale fortemente voluto – che fu marcato dall’uscita del disco che porta il nome di Marco Polo.
Ma procediamo con ordine. Dopo il successo de Il Tuffatore, Giurato sente sempre più la pressione di un mondo discografico le cui regole produttive stanno enormemente strette a un personaggio come lui, così incline a un senso di libertà assoluta. In quegli anni è colpito dallo sceneggiato Marco Polo interpretato da Burt Lancaster e diretto da Giuliano Montaldo. Il risultato di quell’incontro sarà uno dei dischi più belli e affascinanti della musica italiana, pubblicato nel 1984, un lavoro certamente ostico e altrettanto ardito (le canzoni propriamente dette si riducono a due), caratterizzato da un’epica di fondo che mescola all’avventura e al viaggio del veneziano la sensibilità di un malessere e di una condizione di disagio contemporaneo che – partendo dall’esperienza e dalla personalità di Giurato – diventa voce collettiva di una condizione intima dell’essere umano. L’iterazione di un brano – eccezionale – come Le funi e il successivo reprise di Vela e mare mette in scena un paesaggio mantrico che evoca più che raccontare e che sembra indicare l’orizzonte di un approdo prima ancora che l’approdo stesso.
Nei diciotto anni che lo vedono lontano dalla musica, Flavio Giurato lavora in Rai come regista realizzando documentari, diventa allenatore del settore giovanile della S.S. Lazio Baseball, fonda le Entry Edizioni Musicali e Video Produzioni Digitali – che saranno un elemento imprescindibile nella sua seconda vita da musicista – cerca di mettere a punto quella che Giuliano Ciao ha definito – con lucida visione – “una sorta di accordatura dell’essere umano” vale a dire la Teoria dell’Allenamento in Spazi Brevi, opera che sarà in qualche modo centrale nello sviluppo del pensiero e della pratica di ogni sua possibile concezione artistica. Soprattutto lavora a un testo che pone nuovamente al centro della sua narrazione le avventure di Marco Paolo.
Oggi quel testo, nascosto per così tanto tempo – altri diciotto anni – trova finalmente la sua pubblicazione presso la Tic Edizioni in un volume curato e snello. È un testo in realtà non del tutto inedito poiché nella primavera dello scorso anno, in pieno isolamento pandemico, Giurato aveva dato pubblicazione digitale a una lettura con un sottofondo sonoro delle stesse pagine – al netto di piccolissime variazioni intercorse in questi ultimi mesi rispetto alla versione cartacea definitiva – che aveva affascinato gli ascoltatori. Questo Nuovo Marco Polo, anche nella sua veste formale ricercata – il gioco degli spazi e degli a capo, l’impaginazione essenziale del corpo centrale dedicato al racconto nel racconto – tradisce e rivela il cesellamento cui è oggetto da molti lustri, richiamando quasi un’assonanza con la maniacale limatura della ghianda d’argento con cui lo scrittore polacco Jan Potocki (Manoscritto trovato a Saragozza, 1805) fabbricò la pallottola che lo avrebbe ucciso. Non suicidio qui, ma liberazione nel dare una forma definitiva a, come si diceva all’inizio, qualcosa che nel tempo e nella cura ha preso le sembianze di un’ossessione. Nel leggere queste pagine – un racconto sospeso nel tempo e dalla struttura ciclica – ci si accorge che Nuovo Marco Polo funziona come un ingranaggio ipnotico, come un derviscio rotante, come un mantra, un po’ come accadeva già nel suo disco capolavoro. Ecco, allora, ritornare quell’Allenamento in Spazi Brevi scritto alla fine degli anni ottanta: tutto in Giurato sembra ormai sottostare a qualcosa che assomiglia al Miracolo Segreto di Borges, un modo di stare dentro a spazi infinitesimali, dentro a piccole variazioni, dentro a una pace – potremmo dire – da cui scaturisce il movimento. In lui tutto diviene immedesimazione, tutto: la voce, il corpo, la parola, il racconto sembrano i riflessi di un uomo che ha avuto una visione e ha raggiunto un equilibrio e che dell’equilibrio sa che solo spostandosi di poco può narrare la sua verità. Un percorso complesso, affascinante e ostico che sa, però, tradursi nella musica come nelle parole in una sorta di verità piccola ed essenziale.