Non esiste la linea retta nella storia delle migrazioni. Ognuna parte da un punto, compie un giro, spesso non completo, che può richiudersi o restare aperto. Ad ogni modo tra il punto A e B del tragitto resterà sempre un legame, sia esso di amore, di speranza o di rifiuto. Penso sia più o meno legato a quella cosa che chiamiamo “radici”.
Di tutte le arti, la musica è sicuramente quella che non ha mai temuto le migrazioni. Per tutto il corso della storia umana se ne è nutrita, a volte ne ha anche abusato e, fortunatamente, non ha mai rifiutato la contaminazione. Mi sono divertito a immaginare la mappa visuale che può rappresentare la musica dei Nu Guinea e quello che ne viene fuori è una specie di chiocciola che parte da Napoli, passa dall’Africa, sale fino a Berlino e ritorna al punto di partenza. È un po’ la storia di un ritorno che ha assorbito come una spugna tutto quello che ha incontrato nel cammino per definirsi «nuovo». Ma «contemporaneo» è certamente il termine più appropriato.
Vivono a Berlino da un po’ di tempo Massimo Di Lena e Lucio Aquilini, napoletani d’origine, europei per condizione, ed è alla loro città natale che hanno dedicato Nuova Napoli, disco che nel 2018 appariva tra i migliori dell’anno. È ripescando i suoni jazz cari alla Napoli Centrale di James Senese degli anni ’70 e di altri musicisti dell’epoca, mescolandoli con la disco e l’afro beat che sono riusciti a ritagliarsi un posto in Europa, evocando l’immagine dei panni stesi nei quartieri in un mondo che va sempre più globalizzandosi e parlando del desiderio di riscatto di una città che ha sempre imposto la sua immagine al mondo, nel nome dell’autenticità.
La prima volta che ho preso coscienza della portata internazionale del progetto del collettivo napoletano è stato a Brooklyn qualche mese fa. Ero da Rough Trade a curiosare tra i dischi quando sento partire in diffusione un brano familiare e, come spesso accade in questi casi, senza nemmeno rendermene conto, inizio a canticchiare completamente sovrappensiero. Non faccio caso alle parole in dialetto che mi escono naturali. Poi mi guardo intorno e realizzo che i visitatori dello store apprezzano sornionamente il groove del pezzo, anche se alla Sanità non hanno mai messo piede, anche se quei vicoli non li hanno mai attraversati. Cosi mi chiedo: è davvero necessario aver frequentato New York e Lexington Avenue per amare Lou Reed e i Velvet Underground? Decisamente no. Per questo il solare mix di jazz e funk cattura degli stranieri in un’uggiosa giornata di novembre a New York, senza capire i testi in dialetto, solo per l’atmosfera mediterranea, esotica, eppure moderna.
Mesi dopo eccomi in fila per entrare al New Morning, storico locale jazz parigino e — come sempre capita quando in città suona una band italiana che mi interessa — mi diverto ad ascoltare i discorsi delle persone in fila. Realizzo rapidamente di essere circondato da soli francesi (cosa per nulla scontata per il concerto di un gruppo italiano all’estero), ma dopo due sold out nella capitale francese non c’era ragione di credere che il pubblico potesse essere quasi esclusivamente italiano. I discorsi sono quasi tutti incentrati sul Sud Italia, sull’unicità di città come Napoli e Palermo, sul loro fascino e, naturalmente, la loro gastronomia. Il cliché positivo sopravvive alla cattiva reputazione.
La sala si riempie a poco a poco e presto il palco si riempirà di musicisti, otto per la precisione : il duo si fa infatti accompagnare da una band composta da basso, batteria, percussioni, chitarra, sassofono. Completa il quadro la bella presenza scenica di Fabiana Martone, voce e animatrice della brigata.
Il live proposto è una splendida e coinvolgente jam session. Tutti i musicisti, visibilmente sperimentati, restituiscono una verità e un’autenticità ai suoni del disco, che fa superare il concetto di elettronica; lo fanno mantenendo un’approccio fisico agli strumenti tipico di chi la musica la sente dentro di sé. Cosi i corpi dei componenti della band diventano un tutt’uno con lo strumento a cui sono associati, emanano vibrazioni che si levano nell’aria e invadono la sala. Questo approccio jazz, tra canovaccio e improvvisazione, farà muovere tutti a ritmo: dal gruppetto di sfegatati hooligan partenopei, fino al più rigido dei francesi, costretto ad aprirsi a sorrisi spontanei trasportato dalle note.
Il calore che avvolge la sala si fa sempre più intenso e sincero e Ta Storm (brano tratto dalla compilation Afrobeat Makers Vol.3) ben introduce i brani di Nuova Napoli, che tutti in sala sembrano conoscere a memoria. Pareva Ajere e la scoppiettante Stanno Fore vengono accolti con grande entusiasmo e il modo genuino con cui Fabiana dialoga con il pubblico, la naturalezza dei suoi gesti e delle sue parole negli intervalli tra un brano e l’altro, crea un certo rapporto d’intimità e di complicità con gli spettatori.
La sincopata titletrack Nuova Napoli precede una meravigliosa session di assoli che verrà bruscamente interrotta da un problema tecnico che fa interrompere il concerto per circa quindici minuti. Un bicchiere riversato a bordo palco fa saltare l’alimentazione a tutti gli strumenti, tocca al sassofono appropriarsi della scena per qualche minuto e flirtare con il pubblico in un divertente botta e risposta. La ripresa del live, affidata all’energica Je Vulesse viene accolta con una dose ancora maggiore di entusiasmo, quello che accompagna l’esecuzione delle hit.
Si salta e si danza immersi in quel mondo di gioia e malinconia che viene portato in scena. Da Disco Sole fino a Ddoje Facce le canzoni si ampliano in ritmate code musicali. Gli assoli e le improvvisazioni pescano a piene mani dal blues, dal jazz, senza mai perdere di vista la melodia e la godibilità del funky, i dirompenti ritmi africani e quel groove che, a tratti ossessivo e a tratti delicato, comunica a tutti la gioia dello stare insieme, della condivisione, sul palco come nella platea.
Ricompensano il pubblico con il loro Amore i nostri, nell’ultimo sudato brano prima del bis, e quell’amore sarà ben restituito. Si potrebbe quasi dire che, il rapporto artista/pubblico si è ribaltato e i Nu Guinea si dimostrano dei padroni di casa ospitali più che una band ospite. Il pubblico viene avvolto in questo abbraccio di ospitalità, un po’ come Napoli accoglie i turisti stranieri che la visitano, con i suoi affreschi di vita quotidiana, i suoi suoni, perfettamente identificati nella musica del collettivo.
“We recommend listening to Nuova Napoli while walking in the alleys of Naples’ historic center, around wet clothes hanging and street vendors on tiny three-wheelers” avevano precisato i nostri al lancio del disco, e in qualche modo stasera è andata un po’ cosi. È stato un po’ come passeggiare insieme ai turisti per i vicoli della città, guardarli mentre si meravigliano di tutta la bellezza che resiste e che li circonda. Sentirsi parte di qualcosa in quel famoso gioco che vuole che il brutto e lo sporco lo si lasci fuori almeno per il tempo di un viaggio, della scoperta di qualcosa di nuovo, che si ha voglia di dividere con gli altri.
Il viaggio, che poi per me è più un ritorno a casa, si ripeterà quest’estate al We Love Green e sono convinto che l’ambientazione estiva del Bois De Vincennes saprà restituire alla band tutto il calore che merita. Fino ad allora sientete nu poco ‘e funk e nun ce penza’.
Tutte le foto sono di Sara Buonomo