There’s no place like home. Questo sembra essere il motto di uno degli aspetti più caratterizzanti della musica dell’ultimo biennio italiano. Utilizzare le note come espediente per rappresentare una porzione di mondo nella sua quotidianità, nella sua banale bellezza per permettere a noi ascoltatori di essere turisti di una realtà comune. Questa nuova maxi corrente sembra essere inscindibile da un altro aspetto, il racconto della propria vita è intrinsecamente legato a quello della città in cui questa vita si gioca. La città diventa parte integrante e costitutiva dell’esperienza-canzone: il “naviglio gange” dei coma_cose, la Villa Pamphilj di Carl Brave x Franco 126, la Mergellina di Liberato, Porta Palazzo di Willie Peyote. La musica racconta una storia e quella storia è geolocalizzata e finisce per costituire la colonna sonora ideale per le nostre gite fuori porta ma, soprattutto, rappresenta un mini-spot per quell’idea di vita che in quel tessuto urbano si sviluppa e cresce. La musica diventa un manifesto della città e della vita che si trova al suo interno.
Gli interpreti in gioco sono due e il merito va ripartito equamente. Se da una parte, c’è bisogno di un’artista capace di incanalare l’amore per la sua terra e la voce di una città intera, dall’altra c’è bisogno, inevitabilmente, che la città stessa si ponga come “speciale” e degna di essere raccontata nelle sue luci e nelle sue ombre. Si racconta di Milano e dei suoi big event, di Roma e della sua scena. Poi c’è Napoli. Napoli è invitata allo stesso tavolo delle Grandi Città e, in campo artistico, ha sempre puntato all’eccellenza che si trattasse di musica, teatro o cinema.
Nell’ultimo periodo, Napoli sta diventando una piccola mecca per chi non vuole perdersi ciò che la musica, in tutte le sue manifestazioni, può offrire, per chi non vuole rischiare di assistere da lontano a qualcosa che in futuro sarà riconosciuto come cult generazionale. Napoli torna culla della musica a tutti gli effetti e lo fa con il metodo che più le si confà: rimescolando la tradizione alla luce di un’incredibile passione per il mezzo musicale, attualizzando il passato e rendendolo meraviglioso.
Napoli riparte dalle sue radici ma il gesto è tutt’altro che anacronistico poiché queste coincidono con le radici della musica moderna. Pino Daniele, Ernesto Vitolo, Zurzolo, i Napoli Centrale non saranno mai demodé. Napoli ha una storia musicale che trova identità nelle contaminazioni, nell’oggettivo virtuosismo degli interpreti frutto di studio e curiosità, nella meravigliosa ostinazione di mostrare come il dialetto possa essere riconosciuto come una lingua perfettamente adattabile a ogni genere musicale: dalla bossanova al blues made in U.S.A. Una musica che parte da lontano per raccontare la propria città. Un’utopia diventata realtà grazie agli artisti che hanno cantato Napoli alla fine degli anni ‘70.
In questo 2018 Napoli vuole essere a tutti i costi celebrata con la musica e si lascia raccontare. Il primo a rimettere la città partenopea al centro della sua musica è stato Liberato quando, facendo incontrare un medium musicale estraneo e il dialetto napoletano (come da tradizione), ha dato vita al suo personaggio e all’accattivante story-telling visuale legato alla sua città: videoclip che mostrano Napoli, le strade, il mare e la bellezza semplice della storia d’amore tra due ragazzi che si consuma proprio in quelle viuzze tra palazzi antichi e veracità. Perché se Liberato indica Napoli, solo lo stolto guarda Liberato.
E mentre il cantante misterioso decide di raccontare la sua terra attraverso il vernacolo, i video, i riferimenti geografici (Gaiola, Mergellina), due ragazzi napoletani decidono di provare a lasciare che sia Napoli stessa a raccontarsi. Provano a far parlare i vicoli, la storia, il profumo di ragù la domenica mattina.
“We recommend listening to Nuova Napoli while walking in the alleys of Naples’ historic center, around wet clothes hanging and street vendors on tiny three-wheelers”, ci dicono i Nu Guinea che, in realtà, ci portano in quei luoghi in una magnifica fusione di orizzonti. L’happening musicale che il duo vuole creare consiste proprio nella possibilità di vivere un’esperienza quasi in VR. Far partire l’album e chiudere gli occhi può far vivere a ognuno di noi l’esperienza in prima persona di una passeggiata per le strade di Napoli. L’operazione è tutt’altro che banale e trova giustificazione nella storia del duo.
I Nu Guinea sono Massimo Di Lena e Lucio Aquilini, due producer napoletani che, dopo essersi trasferiti a Berlino e dopo vari tentativi con la house di ispirazione minimal, trovano la loro comfort zone in un territorio che, in quel tempo, era tutto meno che confortevole: la club music di ispirazione funky e fortemente influenzata dalla world music. Pubblicano l’album omonimo e, successivamente, World Ep in cui si ritrovano le loro origini di matrice house e le nuove contaminazioni. Il loro coming out musicale viene reso possibile dalla Comet Records, celebre etichetta fondatrice della serie Afrobeat Makers. Il terzo volume viene affidato ai nostri due guaglioni che rispondono presente e decidono di confrontarsi con la musica di Tony Allen, batterista nigeriano esponente di spicco della world music (nonché collaboratore d’eccezione per Charlotte Gainsburg e batterista fisso del gruppo The Good, The Bad and The Ugly assieme a Damon Albarn). Nel 2018, poi il ritorno, solo dal punto di vista musicale, a casa con Nuova Napoli perché in maniera subconscia, conscia o, addirittura genetica, l’essere napoletano passa anche e soprattutto da una meravigliosa tendenza alla contaminazione con ciò che il mondo intero regala allo spartito (si pensi a Raiz o a Meg per averne una prova).
Nuova Napoli è a tutti gli effetti un disco fatto di canzoni-polaroid solo che l’immagine inquadrata dall’obiettivo appartiene a un periodo storico ben preciso, quello tra gli anni ’70 e ’80. Ma così come dei filtri Instagram possono svecchiare una foto di qualche anno fa, diventando parte stessa della foto, i Nu Guinea ipotizzano che i nuovi strumenti musicali possano diventare una parte integrante di un vecchio modo di fare musica per renderlo ancora più attuale di quanto non lo sia già autonomamente. L’intuizione è più che confermata dai brani di Nuova Napoli in cui il passato musicale del duo, forte delle drum machine e delle loop station, si fonde perfettamente con il sound d’importazione funk, soul, prog della musica napoletana di quaranta anni fa, figlio della chitarra di Pino Daniele e delle percussioni di Tullio de Piscopo e Tony Esposito. I Nu Guinea fanno girare sulla puntina il prog napoletano e lo ripropongono in una nuova epoca riattualizzandolo.
I brani di Nuova Napoli non sono “nuovi”, ma hanno quella passione che permette loro di raccontarci bene una storia vecchia. I Nu Guinea sono dei giovani nonni le cui storie non annoiano ma che ascolteremo per ore. Il duo riparte dalle basi perché anche la costruzione di una struttura avveniristica non può prescindere dalle fondamenta. La Nuova Napoli dei Nu Guinea è “vecchia”, la cara vecchia Napoli. Intramontabile come ogni classico. Il lavoro che sembra stare dietro la composizione delle tracce è quasi archeologico, consiste nel togliere minuziosamente la polvere dai reperti musicali per dar loro nuova luce.
La title track d’apertura ricomincia esattamente da lì: sonorità anni ’70 tipicamente italiane, incursioni orientali, ritmi africani. Tutto questo è unito in un meraviglioso mélange figlio di quel periodo in cui vivere in una città che era stata un crocevia culturale autorizzava ogni artista a richiamarsi a tradizioni lontane per tornare alla loro origine. Quindi giù con il basso spudoratamente funky che non lesina sui legati slap, giù con le tastiere in pieno stile poliziottesco. Lo stile è funk, jazz, prog ma anche insolitamente placido, proprio come volevano gli autori. Sa di sole tra i vicoli e di caffè in piazza. Il funk in chiave canicolare dei Nu Guinea è quello per cui non puoi agitarti troppo per non rischiare di sudare. L’incedere ritmico ha un non so che di erotico e l’entrata del sassofono non può non farci pensare a James Senese e ai Napoli Centrale.
Le influenze arabe si ritrovano anche in Je vuless che, ancora una volta, attinge dal repertorio artistico napoletano perché questa città non è solo musica, non è solo teatro, non è solo tradizione, Napoli è arte e le radici partenopee fuori dalla musica stanno nel teatro e nel suo pilastro Edoardo De Filippo. Quale miglior modo di riportare al presente un monologo teatrale se non facendolo cantare su una base funky contaminatissima ma che profuma in maniera spudorata di Italia. Il dialetto napoletano si cuce perfettamente sui ricami delle tastiere. Così De Filippo ha incontrato l’italo disco di Jolly Mare e dalla stretta di mano è nato il brano.
Ddoje facce è un omaggio dichiarato alla musica di Pino Daniele. L’armonia fa tornare alla mente Chillo è nu buono guaglione in slow motion, con i suoi riff di chitarra e con quel perfetto rapporto simbiotico di strumenti musicali provenienti dalla tradizione jazz che si fondono in un caldo e lungo abbraccio amoroso. Ma in questo pezzo un posto di rilievo è occupato dal testo che raccoglie al suo interno quello spirito di allegra malinconia tipico delle canzoni di “Nero a Metà”. Un testo in cui emerge il bello di Napoli ma anche la sua tendenza ad essere deturpata. Si parla di carte sporche per i vicoli (che richiamano la carta sporca di Napul’è), di furti, di prepotenza. “Napoli è una malattia?”, si chiedono gli autori.
La risposta è no. Napoli è una città come tutte le altre, luci e ombre, due facce irriducibili ma una delle due, quella artistica, poetica, può forse sconfiggere quella del degrado.
Disco-sole è una traccia calda, latina, fresca che non sfigurerebbe durante nessun happy hour. Un pezzo più facile. Una traccia che sa di ray-ban e capelli cotonati con una chitarra quasi George Bensoniana con l’improvvisazione cantata, ancora una volta però, declinata sulla matrice araba dei maqam.
Tornano le composizioni figlie del prog napoletano in Stann fore. Un’armonia ipnotica che si rigira su se stessa in loop e su cui il sassofono e le tastiere costruiscono magnifici assoli ma la cui labirintica composizione diventa inno alle strade di Napoli. Sembra di essere in via dei Tribunali quando nell’ultimo minuto gli strumenti lasciano lo spazio a urla in lontananza e al vociare dai balconi. Un vociare che idealmente apre le porte al brano successivo in cui le dinamiche del sax sono dettate dalle urla, dalla voce di Napoli, come appunto si intitola il brano che gira su sonorità più pacate.
Parev’ Ajere è la canzone che chiude il disco e idealmente richiama una Napoli vissuta sulle mattonelle delle strade, le pizze fritte vendute agli angoli delle vie. Il brano è una cover di Mr. Business della band francese Edition Speciale. Un’accettazione del tempo passato quasi a sottolineare quella ambizione fotografica, simile a quella dei calendari venduti nelle varie città. Sei cresciuto, che ci vuoi fare? Occorre ripartire da qui per rifondare un sistema musicale e artistico.
Non rientra nelle intenzioni dei Nu Guinea fare un racconto disincantato della propria città. Preferiscono farne uno vero, sincero, musicalmente allegro e più riflessivo e malinconico dal punto di vista dei testi. Il grande merito dell’album sta sicuramente nel suo tendere verso il passato senza sembrare mai vecchio. Quello di Nuova Napoli è un racconto vissuto emotivamente di una storia magari già sentita ma che ci fa piacere ascoltare di nuovo e di cui ci piace impadronirci per poterla raccontare ai nostri amici per notare i movimenti del loro viso e coglierne le reazioni. I Nu Guinea sono già in pieno lancio: hanno aperto il live sul Lungomare di Napoli di Liberato e parteciperanno al Viva Festival in Valle d’Itria calcando il palco su cui si succederanno Arca, Jamie XX e Sampha. Ma la speranza è che il loro album possa far venire a tutti voglia di concedersi un paio di giorni a Napoli per respirare la loro musica davvero dal vivo.