Mi hanno sempre incuriosito gli studi che cercano di analizzare gli effetti della musica sul nostro cervello, almeno quanto i critici musicali che affermano di poter scrivere una recensione di un disco indipendentemente dal proprio coinvolgimento emotivo e personale nell’ascolto. Forse passeremo l’intero sviluppo dell’esistenza che ci rimane a cercare di fornire una spiegazione al fatto che una serie di suoni mette in moto alcune reazioni chimiche che provocano determinate sensazioni, mentre a qualcun altro ne provoca altre.
Per esempio, Norman Fucking Rockwell nel mio caso è legato indissolubilmente alla malinconia del ritorno da un anno vissuto a grande intensità a pochi chilometri dalla casa in cui Lana Del Rey vive, i video tratti dal disco sono ambientati per buona parte sulle stesse spiagge e in numerosi luoghi che ho frequentato, e piuttosto che chiedermi se questa raccolta di densissime ballads possa rimpiazzare il precedente Lust for life nel titolo di disco più onesto “to date” della cantante, che Pitchfork gli aveva attribuito circa due anni fa, mi chiedo quanto abbia contribuito il ritrovare nei suoi sussurri il languore di chi vive a Los Angeles e, al contempo, quello di chi la lascia e ci lascia parte di sé.
Allora, piuttosto che chiedermi cosa è cambiato nel rapporto di questa songwriter newyorkese di nascita e californiana di adozione con la storia e la cultura degli Stati Uniti, da portarla a rimuovere la bandiera americana dallo sfondo del palco su cui si è esibita negli ultimi anni – giacché la copertina, il titolo, la stessa title track che apre il disco, sembrano palesemente raccontare una denuncia delle illusioni del mito americano e del suo carattere maschile e patriarcale che ha rappresentato per l’intera società statunitense, fin dai tempi in cui Norman Rockwell ha cominciato a raccontarlo nei suoi ritratti di vita americana – a me viene da chiudere gli occhi e constatare che se la musica si potesse tradurre in sensazioni visive, descriverei questo album come il tentativo più riuscito di trascrivere con le note la luce unica e tipica della California del Sud, quel velo dorato che cala sulle cose e sulle case nelle ultime ore di sole che i californiani chiamano “golden hour”, e che immerge chiunque si trovi in giro in una molle spossatezza che accompagna la fine della giornata.
Inevitabile riscontrare una ulteriore crescita e una maggiore consapevolezza slowcore o sadcore – o se preferite Hollywood sadcore, come viene spesso etichettata – portata avanti con coerenza in un disco in cui la composizione è smembrata progressivamente fino a ridursi spesso a una trama delicatissima di voce e piano.
Nel tentativo di trovare un punto di equilibrio tra le complessità che insistono a vedere gli estimatori di Del Rey e l’assenza di profondità che invece rivendicano i suoi detrattori, Norman Fucking Rockwell a me pare in definitiva un bel disco che si lascia ascoltare e riascoltare, a cui viene attribuita una pretenziosità che, nel bene e nel male, la cantante stessa non mi pare abbia realmente ricercato. Io vi ritrovo quel vuoto che ti prende allo stomaco mentre passeggi sul boardwalk davanti all’Oceano quando si approssima la sera. Riuscire a descriverlo in musica è, per chi scrive, il requisito principale di chi voglia scrivere un grande disco californiano.