Non si può vivere senza poesia

Persino nelle librerie affollate all’angolo della poesia ci ritroviamo troppo spesso da soli. Eppure a pensarci la poesia è il primissimo vagito dell’umanità, laggiù dove inizia la storia orale del mondo cantano i poeti e ci trafiggono con le loro parole. William Faulkner in un’intervista a The Paris Review si definiva un poeta fallito aggiungendo che: forse ogni narratore vorrebbe scrivere poesia all’inizio, non ci riesce, allora prova con i racconti, la forma più impegnativa dopo la poesia – fallisce ancora e allora deve tornare al romanzo. La magia della poesia sta tutta nel riuscire in pochi versi a smuovere l’uomo, e allora scegliere le parole la rende un’arte sempre più raffinata.

In questo piccolo viaggio vi portiamo a scoprire alcuni dei grandi protagonisti della poesia, riducendo il raggio al solo Novecento. Avvertenza: non c’è una ragione precisa per la selezione di un poeta e non un altro, ma lasciamo che siano loro a parlare con i loro versi. E chissà se la prossima volta all’angolo della poesia non saremo di più.


Eugenio Montale

Uno dei più grandi poeti di sempre, premio Nobel per la Letteratura nel 1975. Abbiamo scelto un brevissimo canto tra i versi di Xenia, raccolta di poesie dedicata alla moglie scomparsa Drusilla Tanzi. Se c’è un modo per schiantarsi diritti contro la forza della poesia, queste quattro righe riescono meravigliosamente nell’impresa: con pochissime parole Montale riesce a condensare non solo tutta la sua poetica, ma anche tutti i grandi temi dell’umanità. Il delitto perfetto, in versi.

Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.


Nazim Hikmet

Il poeta turco che visse prigionia ed esilio ci ha regalato versi struggenti. Forse i più conosciuti sono quelli in cui si sente tutta la nostalgia per la casa, la patria, e l’amata (“il più bello dei mari è quello che non navigammo”). Qui abbiamo selezionato una delle opere che apre a tutta la dissidenza di Hikmet: Angina Pectoris è anche un canto che porta il marchio dell’umana compassione.

Se qui c’è la metà del mio cuore,
l’altra metà sta in Cina, dottore,
nella lunga marcia verso il Fiume Giallo.
E poi ogni mattina, dottore,
ogni mattina all’alba
il mio cuore lo fucilano in Grecia.
E quando i prigionieri cadono nel sonno,
quando gli ultimi passi si allontanano dall’infermeria,
il mio cuore se ne va, dottore,
a una vecchia casa di legno, a Istanbul.
E sono dieci anni, dottore, dieci anni
che non ho in mano niente da offrire alla mia gente,
nient’altro che una mela
una mela rossa, il mio cuore.

È per tutto questo, dottore,
e non per l’arteriosclerosi, non per la nicotina o la prigione,
che ho questa angina pectoris.
Guardo la notte attraverso le sbarre
e malgrado tutti questi muri
che mi pesano sul petto
il mio cuore batte con la stella più lontana.


René Char

Da Prévert a Éluard, da Valéry a Breton, sembra proprio che la Francia abbia continuato la sua tradizione di sfornare autentici devoti della poesia anche nel corso di tutto il Novecento. Abbiamo scelto di far parlare la penna di René Char, che con il suo ermetismo riflessivo conquistò Albert Camus e pure un certo pubblico italiano grazie alle traduzioni di Vittorio Sereni. Qui sotto Char ci racconta cosa distingue un poeta – da Una serenità contratta, del 1952.

Il poeta si distingue per il numero di pagine
insignificanti che non scrive.
Egli possiede tutte le strade
della vita smemorata, per distribuire
le sue povere elemosine
e sputare quel poco di sangue
che non lo farà morire.


Sergej Aleksandrovič Esenin

Esenin è il poeta russo che si confessava teppista e visse solo 30 anni. Come ogni spirito tormentato si tuffava nel mondo per fuoriuscirne carico di versi – dedicati alla madre terra, alle donne, al dramma dell’esser poeta. Morì suicida, e Majakovskij gli dedicò una poesia che finisce così: “In questa vita non è difficile morire. Vivere è di gran lunga più difficile”. Abbiamo scelto un componimento che fa tornare in mente le parole che Baudelaire scrisse in apertura a I fiori del male, dove una madre straziata dall’aver partorito proprio un poeta, gli avrebbe preferito un groviglio di serpenti. È così che appare il poeta al mondo.

Tutto ciò che vive reca da gran tempo
una sigla particolare.
Se non fossi poeta
sarei senza dubbio un ladro e un mascalzone.

Fragile, di aspetto gentile,
il più scatenato dei monelli,
arrivavo a casa spesso, troppo spesso davvero,
col viso sanguinante;

e a mia madre allarmata
sussurravo tra le labbra vermiglie:
“Cosa da niente. Ho inciampato in un sasso,
domani certo sarò guarito”.

Adesso che è scomparso
il furibondo ardore di quei giorni
altre forze irrequiete, insolenti,
si riversano nella mia poesia…

come allora, pieno di audacia e di orgoglio,
mi tiro dietro qualcosa di nuovo a ogni passo.
E se da ragazzo non mi spaccavano che il volto,
tutta la mia anima oggi è nel sangue.

E più non parlo alla madre
ma a una plebaglia sghignazzante e ostile:
“Cosa da niente. Ho inciampato in un sasso,
domani certo sarò guarito”.


Sylvia Plath

Scrisse Pessoa, il poeta finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente. Quello che amiamo nella poesia è anche la capacità di avvertire tutto questo strazio vivo e umano che il poeta vive – non ci sorprende certo se molti poeti ci abbiano abbandonato. Sylvia Plath sentì davvero un dolore che spezza, e nonostante quel perfezionismo che avvertiamo tremare in ogni parola, scelse di metter fine al dolore con il suicidio. Nel monologo delle 3 del mattino questa sofferenza si può quasi toccare. Versi che sembrano preconizzare quelli di Neil Young che conosciamo a memoria: chi non ha mai provato che sarebbe meglio andarsene subito che sopportare il dolore terreno?

È meglio che ogni fibra si spezzi
e vinca la furia,
e il sangue vivo inzuppi
divano, tappeto, pavimento
e l’almanacco decorato con serpenti
testimone che tu sei
a un milione di verdi contee da qui,
che sedere muti, con questi spasmi
sotto stelle pungenti,
maledicendo, l’occhio sbarrato
annerendo il momento
che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni,
ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato
dal mio solo regno.


Bertolt Brecht 

Diciamoci la verità, confessiamocelo: è difficile vivere (o sopportare di vivere) senza le parole di Bertolt Brecht. Ogni suo verso è un sasso scagliato sul volto umano, uno strazio e lampo di genio capace di illuminare profonde riflessioni. Brecht visse nel periodo più difficile nel posto più controverso, si scagliò deciso contro l’imbianchino che devastò l’Europa, fu resistente e mai arreso. Il rogo dei libri è una delle poesie che meglio descrive l’anima del poeta: quello autentico non accetterà mai che le sue parole vengano usate dal regime.

Quando il regime ordinò che in pubblico fossero arsi
i libri di contenuto malefico e per ogni dove
furono i buoi costretti a trascinare
ai roghi carri di libri, un poeta scoprì
– uno di quelli al bando, uno dei meglio – l’elenco
studiando degli inceneriti, sgomento, che i suoi
libri erano stati dimenticati. Corse
al suo scrittoio, alato d’ira
e scrisse ai potenti una lettera.
Bruciatemi!, scrisse di volo, bruciatemi!
Questo torto non fatemelo! Non lasciatemi fuori! Che forse
la verità non l’ho sempre, nei libri miei, dichiarata? E ora voi
mi trattate come fossi un mentitore! Vi comando:
bruciatemi!


Federico García Lorca

Uno dei grandi limiti della poesia è quello della traduzione – se per un romanzo si possono trovare modi per arginare questo limite, con la poesia è davvero complesso. Poesia è anche musica per le orecchie, lettura da declamare a voce alta. Alcuni versi di Federico García Lorca sono così intraducibili che spesso troverete persino i traduttori arresi a lasciarli nello spagnolo originale (“verde que te quiero verde”). García Lorca vive di musica nel suo canzoniere, e non potevamo che scegliere un testo originale – solo così è possibile sentire il lamento di una chitarra piangere.

Empieza el llanto
de la guitarra.
Se rompen las copas
de la madrugada.
Empieza el llanto
de la guitarra.
Es inútil callarla.
Es imposible
callarla.
Llora monótona
como llora el agua,
como llora el viento
sobre la nevada.
Es imposible
callarla,
Llora por cosas
lejanas.
Arena del Sur caliente
que pide camelias blancas.
Llora flecha sin blanco,
la tarde sin mañana,
y el primer pájaro muerto
sobre la rama
¡Oh guitarra!
Corazón malherido
por cinco espadas.


Leonard Cohen

Da cantore a cantautore, da poeta a poeta. Dicevamo, la poesia è anche musica – e non ci sorprende affatto il Nobel per la Letteratura a Bob Dylan che con i suoi testi ha portato una piccola rivoluzione nella lingua statunitense. In fondo è anche questo che fanno i poeti, prendono una lingua, ci fanno a botte e la rendono nuova, la plasmano. Dai menestrelli al Novecento dei cantautori il passo è breve. Abbiamo scelto Leonard Cohen, il canadese errante.

Mi domando quante persone in questa città
vivono in stanze ammobiliate.
A tarda notte, quando osservo le case,
dietro a ogni finestra posso quasi vedere una faccia
che sta a guardarmi,
e quando giro le spalle
mi domando quanti di loro tornano alla scrivania
per scrivere queste stesse mie parole.


Edward Estlin Cummings

Abbiamo parlato della poesia come musica, ora trasciniamo gli occhi su qualcosa di più simile alla visual poetry con uno dei grandi poeti statunitensi, E.E. Cummings. Le voci del Novecento americano in poesia sono state tantissime: le terre desolate e l’Alfred Prufrock di T.S. Eliot, il ruggito beat di Allen Ginsberg e compagnia, l’erotismo maledetto di Anne Sexton o le visioni randagie di Hart Crane. Ma questo componimento sperimentale di Cummings ci fa sentire e vedere una solitudine che plana come una foglia sul terreno.

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Alejandra Pizarnik

Anche l’Argentina — e più in generale il Sudamerica — è stata terra prolifica di poeti. Abbiamo scelto Alejandra Pizarnik, voce intensa del Novecento. Poeti come Octavio Paz e Julio Cortázar si innamorarono dei suoi versi, e qui sotto trovate un piccolo esempio di quella straordinaria capacità di Alejandra Pizarnik nel riuscire a parlare a tutti noi. Per tutti quelli che dimenticarono il canto.

Resti. Per noi rimangono le ossa degli animali e degli uomini. Dove
una volta un ragazzo e una ragazza facevano l’amore, ci sono ceneri
e macchie di sangue e pezzettini di unghie e ricci pubici e una vela
piegata che usarono con fini oscuri e macchie di sperma sopra il
fango e teste di gallo e una casa diroccata disegnata sulla sabbia, e
pezzetti di fogli profumati che furono lettere d’amore e la rotta sfe-
ra di vetro di una veggente e lillà appassiti e teste tagliate su guan-
ciali come anime impotenti tra asfodeli e tavole crepate e scarpe
vecchie e vestiti sul fango e gatti malati e occhi incrostati in una
mano che scivola verso il silenzio e mani con anelli e schiuma nera
che schizza su uno specchio che nulla riflette e una bambina che
dormendo asfissia la sua colomba preferita e monetine di oro nero
risuonanti come zingari di dolore che suonano i loro violini a con-
chiglie del mar Morto e un cuore che batte per ingannare e una rosa
che si apre per tradire e un bambino che piange di fronte a un cor-
vo che gracchia e l’ispiratrice si maschera per eseguire una melodia
che nessuno capisce sotto una pioggia che calma il mio male. Nes-
suno ci ascolta, per questo pronunciamo preghiere, ma guarda! Lo
zingaro più giovane sta decapitando con i suoi occhi di saracco la
bambina della colomba.

Io ero predestinata a nominare le cose con nomi essenziali. Io non
esisto più e lo so; quello che non so è che cosa vive al posto mio.
Perdo la ragione se parlo, perdo gli anni se sto in silenzio. Un vento
violento distrusse tutto. E non aver potuto parlare per tutti quelli
che dimenticarono il canto.


E non possiamo che commiatarci con i versi finali di “A un poeta futuro” di Luis Cernuda.

Quando nei giorni a venire, libero l’uomo
dal mondo primitivo a cui abbiamo fatto ritorno
di tenebre ed orrore, il destino porterà
la tua mano verso il volume dove giacciono
dimenticati i miei versi, e lo aprirai,
so che sentirai la mia voce raggiungerti,
non da quei vecchi caratteri, ma dalle profondità
più vive delle tue viscere, con un affanno senza nome
che saprai dominare. Ascoltami e comprendi.
Nel suo limbo la mia anima forse ricorderà qualcosa,
e allora dentro di te i miei sogni e desideri
troveranno infine una ragione, e io avrò vissuto.

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