Non capiamo quasi mai il motivo che ci conduce a discutere delle morti degli altri, quando a malapena ne possiamo capire la vita. Forse è perché ci troviamo sempre in debito con le eredità che qualcuno sembra lasciarci e che, nella maggior parte dei casi, nemmeno ci appartengono. Alcune le sentiamo nostre proprio perché quelle biografie si sono concluse, e rimangono inspiegabili, a posteriori, per il loro rapporto con il nostro vissuto. Il cinema non ci è mai appartenuto quanto avremmo voluto e solo in alcuni casi abbiamo potuto dire che quella particolare storia appartenesse a qualcuno che conoscevamo, a grandi tratti, a meno di clamorose amicizie. A volte, e raramente, la vita di qualcuno può superare la grandezza dei personaggi che ha creato ma, per uno strano scherzo del destino, questo diventa chiaro solo con la sua morte. E non serve nemmeno una di quelle rumorose per accorgersene, come sappiamo basta una silenziosa malattia a bloccare tutto.
Probabilmente quella di Claudio Caligari è una storia piuttosto comune e a cui molte persone sono già abituate. Questioni di chiusura e di mancanza di mezzi, di persone che prima ti danno una mano poi la ritraggono e senza il successo di Non essere cattivo in molti meno sarebbero a piangere la sua scomparsa. E dire che solo l’invito di Valerio Mastrandrea su Il Messaggero a Martin Scorsese, e l’intervento di più case di produzione, ne hanno permesso l’uscita (limitata) nei cinema, poco prima che il tempo scadesse per davvero, fino all’esclusione dalla cinquina per l’Oscar al miglior film straniero. Ma tutto questo fa parte solo del finale della storia di Caligari. Prima c’è tanto, la lotta e il ’77, i primi documentari con Segre, l’influenza pasoliniana e i tentativi di un qualunque giovane per emergere, anche affidandosi a chi si ritiene un maestro: «Quando Accattone arrivò in televisione, Pasolini era ancora vivo. Qualche mese prima con l’intermediazione di Francesco Leonetti avevo cercato di fare il suo aiuto per il film che doveva girare su San Paolo e che invece risultò essere Salò. Ma lì il set era chiuso. Leonetti disse: farai il suo prossimo film. Che non c’è mai stato».
Nel 1983 esce Amore Tossico, per L’odore della notte bisognerà aspettare quindici anni, su interessamento di Marco Ferreri. Poi l’attesa, ancora una volta, per l’ultimo film. Problemi vecchi, i soldi non si trovano, non c’è nessuno che vuole puntare sul progetto, le grandi aspettative, l’intercessione di Mastrandrea, non a caso protagonista del suo secondo lungometraggio. Perché dove le occasioni non arrivano ci sono le persone, qualcuno così libero capace di credere in te. Nonostante tutto.
È proprio il lavoro che Caligari compie sugli attori a rendere i suoi pochi film una traccia che il cinema italiano non può nascondere. Se Amore Tossico rende il suo tributo alla scuola neorealista, con citazioni pasoliniane che abbonderanno in tutte le sue produzioni, quello di Non essere cattivo ne è l’uscita matura, in cui le tracce rimangono ma sono così dentro alla natura della pellicola da diventare un’arma in più nel ferire il cuore di chi lo guarda. Gli attori scelti per il suo debutto sono tutti provenienti dalla strada, come in Accattone, ma le parole si mescolano ai loro modi di fare, diventandone una seconda pelle, profonda e, ormai, irrintracciabile, in cui la finzione non c’entra praticamente più. Poi la scelta di Mastrandrea, che mai prima aveva interpretato ruoli drammatici e che qualcuno ha rivisto nelle espressioni di Cesare, questa volta in Luca Marinelli. Il lavoro con loro è fondamentale, basti pensare alla differenza fra l’interpretazione di Alessandro Borghi in Caligari e Suburra, come una vecchia scuola che ci apparteneva ha sempre creduto e che ci ha fatto brillare, prima che altri interessi si mettessero in mezzo. In questo impreziosimento delle interpretazioni lo stile neorealista si è imposto e, per la stessa ragione, è sfiorito. Il pubblico voleva altro, le persone non vanno più al cinema per capire, serve qualcosa di diverso, nonostante qualcuno ancora riesca, a fatica, a raccontarci qualcosa di più. Alla base delle difficoltà di Caligari c’è anche questo. Il cinema impegnato non vende più e i suoi temi sono troppo ancora dolorosi per un paese che piuttosto di scoprire le verità sugli anni di piombo li ha dimenticati, ma le persone restano, e tornano a darti una mano. Resta qualcosa di malato nel fatto che una pellicola nemmeno in concorso al festival di Venezia arrivi vicina a essere candidata al premio più importante per il cinema mondiale. In questo paese, dopotutto, ci viviamo anche noi.
Le cose che ci toccano lo fanno in maniera imprevedibile e diversa, non importa che Non essere cattivo possa essere fra i film italiani più belli degli ultimi anni, o che la sua storia possa ripetere certi clichés o vada così a fondo da farti tremare nonostante sia prevedibile come andranno le cose. È il cinema, la vita è una cosa diversa, ma non sempre. Perché la storia di Caligari, che ci limitiamo a guardare quando è ormai troppo tardi, non è molto diversa dalla nostra. Le luci della ribalta arrivate troppo tardi, non sono nemmeno questo granché. Ma l’applicazione del suo metodo, l’instancabile ricerca e le continue cadute, fino all’intervento di altri quando quella forza non c’è più, stroncata da problemi più gravi. Una lotta dolorosa e finale, quella del dovere di raccontare, anche quando le persone non ti danno la possibilità di farlo, o nemmeno si accostano un momento, sono una vittoria amara se arrivano quando ormai non ci si è più. A perdere siamo stati ancora una volta noi, anche se non sappiamo davvero cosa avrebbe potuto colpirci ancora. Il talento è una questione sopravvalutata se non si ha nemmeno la volontà di applicarcisi fino in fondo e, questo non fa di Caligari un mito post-mortem da celebrare con retrospettive e inaugurazioni di cinema che portino il suo nome. Perché da Ostia non si esce quasi mai vivi, e noi siamo ancora costretti a calpestare le macerie di qualcuno ci avrebbe potuto dire qualcosa ma che non abbiamo avuto il tempo di ascoltare.