Poche creature musicali hanno segnato gli ultimi venti anni con la stessa carica innovativa, la stessa continuità e lo stesso vigore con cui i Nine Inch Nails hanno segnato in modo indelebile gli anni 90 e i successivi. La loro carriera, fatta di album indispensabili come Pretty Hate Machine, The Downward Spiral e The Fragile si era messa in pausa nel 2009, dopo il trionfale “Wave Goodbye tour” che li vide girare in tutto il mondo per una presunta ultima volta. Ma la storia della musica pullula di falsi allarmi e di ritiri annunciati che, in certi casi soprattutto, non sono fortunatamente rispettati. E’ per questo che il fatto che Trent Reznor negli ultimi quattro anni non avesse perso il vizio di fare musica (e di farla sempre alla grandissima), firmando colonne sonore e progetti paralleli, ha sempre rassicurato i fan della sua creatura primigenia. Ebbene, nel mare magnum di reunion e band che incidono un album dopo millenni, in questo 2013 non potevano mancare il ritorno degli alfieri dell’industrial duro e sensibile, non potevano mancare i Nine Inch Nails formazione rinnovata con Eric Avery dei Jane’s Addiction, Adrian Belew dei King Crimson e Josh Eustis dei Telefon Tel Aviv ad affiancare gli storici membri del gruppo Alessandro Cortini e Ilan Rubin (insieme naruralmente al vecchio caro Trent).
Poche chiacchiere per dire da subito che Hesitation Marks, ottava creatura della band americana, è un disco buono ma non epocale, rappresenta un gradito ritorno, ma non certo un tassello indispensabile, piuttosto la speranza che in futuro i nostri eroi sapranno regalarci altre emozioni forti e indelebili. Ma andiamo con ordine: alla pressione del tasto play si viene immersi nel breve intro noise-suspence di The Eater Of Dreams che apre al beat elettronico e aggrovigliato di Copy of A: “I am just a copy of a copy of a copy / Everything I say has come before“ canta Trent con voce lieve su un groove a spirale che si inspessisce secondo dopo secondo. E l’inizio promette piuttosto bene. La già nota Came back haunted presa un po’ in prestito dai vecchi brani della band si lascia ascoltare, iniettando ulteriore carica nell’ascoltatore, ma è con Find My Way che arriva il primo brivido: teso ed intimo, uno di quei brani che tirano fuori l’anima sensibile di Reznor e servono a scaricarsi tra un’urto violento e l’altro, ma a questo giro a quanto pare, di canzoni da urto ce ne sono ben poche e l’intero album gravita in una bolla di attesa che non riesce mai a scoppiare e a diventare rabbia.
C’è meno violenza e tanta elettronica di ambiente a farcire le canzoni, e le schitarrate si scorgono solo nel bel mezzo di incastri di beat dal sapore più mite, come nel crescendo di All Time Low che a tratti strizza l’occhio a Closer e a tratti sembra uscita da un disco hip-hop. Il nuovo lavoro dei NIN può essere idealmente diviso in due parti: la prima più fresca e di attacco e la seconda, un po’ più ostica e stanca, a fare da spartiacque è probabilmente Everything, decisamente il punto più basso dell’album, in cui i nostri si lanciano in un’imbarazzante cavalcata degna della peggiore tradizione pop-punk, con richiami a brani del loro passato di ben altro spessore. Non mancano brani interessanti come Disappointed e Satellite, che riescono nell’ardua impresa di uscire dalla prevedibilità, o quantomeno di scansarla con arrangiamenti destabilizzanti. Ma è la coda del disco a soffrire maggiormente di stanchezza e a rifugiarsi in canzoni facili e prevedibili (vedi Various Methods Of Escape e I Would For You). L’ultima gemma di qualità è quella While I’m Still Here che, approfittando del messaggio nascosto nel titolo, sembra voler far capire a chi ascolta che i Nine Inch Nails sanno scrivere ancora brani di grande qualità e che tutto quello ascoltato fin qui resta solo un assaggio.
Speriamo arrivi presto un piatto più succulento, che in fondo lo sappiamo tutti che quel genio di Trent Reznor ha ancora molte cartucce da sparare. Le unghie sono state affilate, ora vogliamo sentirle graffiare.