Nell’universo musicale odierno, così flagellato dall’esigenza di voler inscatolare e catalogare ad ogni costo, affibbiando ai dischi insipide e preconfezionate etichette di genere, vi sono fortunatamente ancora anfratti a cui solo pochi eletti hanno il privilegio di accedere, rifuggendo –abili- a qualsivoglia razionalizzazione della loro arte. Il berlinese Nils Frahm appartiene a pieno titolo a questa schiera, paladino di quel segmento di raccordo che colma il divario tra l’elettronica e la classica. Famosi compositori come Philip Glass e Steve Reich potrebbero, in parte, essergli associati; ma i lavori di Frahm si distinguono da sempre per la naturale propensione verso il “nuovo”, animati, come sono, da polìcrome pennellate di musica post-dance, techno, ambient e minimalista.
Bilanciando elementi d’avanguardia con paesaggi di pura sinfonia, il musicista tedesco ha, nel corso dell’ultimo decennio, illuminato una via di possibile sperimentazione, lavorando a fianco di Robert Raths, capo dell’influente etichetta Erased Taped. Con All Melody questa brama di esplorazione dell’elettronica, se possibile, è divenuta obiettivo ancor più intimo e personale, al punto da rendere necessaria la realizzazione di un ambiente unico e adatto alle esigenze di Frahm: lo studio di registrazione Saal 3. Costruito e decostruito quasi fosse una tela di Penelope nel corso degli ultimi due anni, questo spazio è situato all’interno della famosa Funkhaus di Berlino Est ed è un luogo in cui l’artista ha potuto controllare ogni dettaglio, dall’arredamento alla posizione dei fili sul pavimento. Una tale maniacale cura ha assicurato al compositore un controllo pressoché totale sull’ambiente d lavoro, che in tal modo diventa strumento a lui asservito, anziché l’opposto. Un Abbey Road dei Beatles, o un Trident per i Queen, volendo scomodare paragoni celebri.
Il risultato di tale sforzo si è concretizzato in una conoscenza quasi viscerale degli idiotipi acustici con cui Frahm interagisce e che stravolge in una continua sfida alle aspettative che circondano forma e contenuto, con un gioco di inversione di ruoli fra strumenti acustici ed elettronici. Se in precedenza Frahm si affidava al Midi Controller per le lunghe note di drone music, in questo caso ne ha sfruttato le qualità percussive, programmando invece una drum machine per suonare come un’orchestra di voluttuosi flauti. L’effetto propulsivo di tale “mimesi sonora” è evidente in quella lenta e delicata distorsione di vetri campionati che è l’anima corrotta di Sunson, ma ancor di più nel melancolico ambient di A Place, pezzo in grado di soffiare un implacabile gelo che si insinua nelle ossa e che fa stringere l’ascoltatore ancor di più nel proprio cappotto. Risulta fulgido fin dai primi ascolti quanto All Melody sia lo specchio di una Berlino posseduta dalla maestosità dell’inverno, e che brilli come il fiume ghiacciato Spree sotto un pallido sole.
Un altro frame istantaneo di questo binomio inscindibile artista-studio è fornito dalla straziante My Friend The Forest, una traccia con evidenti rimandi ad Ode, dall’album Solo del 2015: con la dovuta concentrazione in cuffia, si possono apprezzare i fruscii della stanza, i martelletti del piano che picchiano le corde e i piedi di Frahm che pigiano i pedali. Altrove (Human Range) son trombe e violoncelli a prendersi il ruolo di protagonisti, con sonorità seducenti che fanno capolino all’improvviso, per poi ritrarsi subito in zone d’ombra protette. L’afflato di ricerca si estremizza in Kaleidoscope, un vertiginoso mix di poliritmi che, gradatamente, abbandonano gli ormeggi e abbracciano un senso di quasi trascendenza, in una fusione di organi e voci che ricorda il capolavoro Says del disco Spaces.
Impossibile tralasciare poi la title-track, che è forse il passaggio più techno dell’intero lavoro: All Melody è un tuffo a capofitto nelle imperscrutabili -per noi- trame spettrali della macchina, che il compositore berlinese, invece, conosce a perfezione. Un incantesimo ipnotico introspettivo, in grado di virare da un ritmo minimalista ripetuto in loop ad un gioco di rimandi estremamente complesso. Momentum, ancora, stupisce per l’intreccio di armoniche, e la stessa conclusiva Harm Hymn fornisce il degno epilogo al disco, in un tripudio celestiaco che dà un’impronta quasi sacrale al pezzo.
In realtà ogni traccia, ogni singola parte di questo magnifico monumento sonoro è dotata di vita propria e trasuda un’emotività primigenia. In All Melody, Frahm non solo ha mantenuto quel suo peculiare approccio gravido di emozioni, ma ha addirittura infuso un’anima al tutto. Lo guardi suonare, una mano su un pianoforte a coda e l’altra su un synth Juno 60, e vedi un’artista totalmente immerso nella sua creazione, in una sfilata di strumenti vintage che paiono estensione naturale di mani e dita. In una recente intervista il musicista tedesco ha manifestato una sorta di insoddisfazione per la propria irraggiungibile ambizione, affermando: “la musica che sento dentro di me non finirà mai su un disco. Sembra che quella possa suonare solo per me stesso”. Considerata la qualità di quest’ultimo album, difficile immaginare cosa di meglio possa avere in mente.