In quei giorni, lui sbatteva le palpebre e era un suono, le teneva chiuse e era un altro suono, spalancava quelle voragini acquose che erano i suoi occhi e era la composizione del caos, il caos composto e poi scomposto, smontato, svitato, sregolato dalle definizioni e quindi s-definito, eppure matematico, suono algebrico che descriveva la piena regola dell’equilibrio della caduta. Cominciò a comporre, a suonare, a incidere, a registrare. Con gli occhi aperti-chiusi-semichiusi-semiaperti-apertissimi-chiusi stretti.
Quando – la scorsa primavera – ho incrociato distrattamente un libro dalla copertina azzurra, a colpirmi fu prima di tutto il titolo, strano e lunghissimo. Solo pochi giorni dopo, come avviene per tutti gli incontri importanti coi testi che lasceranno un segno, altri indizi si sono presentati alla mia porta; quel libro – mi dissero – parlava di Nicolas Jaar, compositore, producer e musicista statunitense-cileno che, pur giovanissimo – classe 1990 – ha rivoluzionato, spingendoli in nuovi territori, i confini della musica elettronica. L’innesco era avvenuto. Ma hai voglia a cercare qualche informazione in più: sembrava che, in una rete perennemente prodiga di informazioni soverchie, quel testo e la sua autrice stavano lì nascosti all’attenzione di tutti e al desiderio contemporaneo di apparire ad ogni possibile costo.
È da qui che parte l’incontro con Non nella Enne non nella A ma nella Esse pubblicato da Wojtek Edizioni, nella collana Orso Bruno, romanzo d’esordio di Mariana Branca, finalista alla XXXIV edizione del Premio Calvino.
La centrale elettrica di quegli anni, quegli anni che eravamo amici, che stavamo sempre insieme, quegli anni che ci volevamo un bene pazzo, che ci amicavamo ogni giorno di nuovo come la prima volta, qualche ora ci inimicavamo, poi ci appaciavamo, ci abbracciavamo oppure certe volte ci guardavamo soltanto. E un sacco di cose cogli occhi ci dicevamo e con le ciglia. La centrale elettrica di quegli anni era la musica elettronica che ascoltavamo, la musica elettronica che ballavamo, la musica elettronica che giocavamo, la musica elettronica che sognavamo.
È così che ha inizio il libro, con un incipit che colpisce dritto perché capace di trattenere dentro le righe e le pagine un concetto che è già di per sé à la Nicolas Jaar; qualcosa che ha che fare con il suono e la forma dello spazio: con il suono generato dalle parole e dalle sillabe –sampler e beat – e con lo spazio che, da quello ristretto, delimitato dall’inchiostro che una tipografia incide sulla carta, si amplia attraverso la fantasia del lettore nel riempire gli spazi bianchi di quella stessa pagina con le note dell’immaginazione.
Non nella Enne non nella A ma nella Esse è questo: un libro che ha la capacità di costruirsi come fosse un piccolo club di una periferia lontana, sospeso su quello spazio liminare – chiunque abbia presente il senso sottile che si respira tra l’uscio di un locale dove si sta entrando o uscendo per ascoltare (o dopo aver ascoltato) musica elettronica conosce esattamente quello che sto descrivendo – che separa la musica dalla notte, il talento di un producer dalla suggestione unica e personale che quelle note e quel ritmo hanno prodotto nel tuo mondo solitario di ascoltatore.
Mi metteva, da quando eravamo piccoli, quella calma inquieta delle domande inquietanti. Però lui c’era, la sua musica c’era, e lo Spazio e il Rumore e il Suono, soprattutto quello. Allora non sentivo più alcun pericolo, capivo che era così, era la vita, quella specie di paura costante, latente, che descrive l’insistenza di un gesto, la fermezza del pensiero.
Nella sua forma così particolare Non nella Enne non nella A ma nella Esse è – semplificando – una biografia, reale e immaginaria a un tempo, della formazione artistica e umana di Nicolas Jaar. Voce narrante, in prima persona, è quella di Andrés F. Rodriguez, nel libro miglior amico del musicista cileno e guida per il lettore in questo che è prima di ogni altra cosa un viaggio emotivo e picaresco tra due amici che crescono insieme. La Centrale Elettrica è il punto di partenza di una scoperta non solo musicale ma di un legame – ancora prima che affettivo – spirituale.
Mariana Branca ci conduce all’interno dei meandri tanto conosciuti – perché appartenenti a tutti – eppure sempre così unici e specifici nell’esperienza del singolo – di un’adolescenza vissuta in simbiosi tra due ragazzi di origine sudamericana in un rapporto che mentre, pagina dopo pagina, si delinea quasi in un senso classico della simbologia letteraria – è Nicolas la stella, il genio, il talento, Andrés lo scudiero fedele che ne osserva le gesta – allo stesso tempo, sul versante dello stile, regala qualcosa di incredibilmente affascinante e frammentato.
The ghost of ‘lectricity howls in the bones of her face
Visions of Johanna, Bob Dylan, 1966
Se ci sono ascendenze da ricercare in Non nella Enne non nella A ma nella Esse vanno trovate non nella forma della narrativa ma in quella della poesia a partire da quell’esperienza della beat generation capace non solo di inglobare elementi della scrittura musicale ma – talvolta – di determinarsi e farsi determinare (si pensi solo al rapporto tra Allen Ginsberg – citato nel libro con Howl – e Bob Dylan) dal confronto con la stessa musica di quegli anni. Mariana Branca è una donna che dice pochissimo di sé, la sua è una comunicazione che – fuori dalla pagina scritta – fa della sottrazione la sua cifra più evidente; racconta però di aver letto, dopo una formazione classica, molto meno di quanto ci si possa aspettare: poesia, appunto e “libri” atipici come il dizionario etimologico e il dizionario dei sinonimi e contrari. Suggestioni, ancora prima che modelli, che si riversano nelle pagine del libro.
Se li portavano a casa, i campi elettrici, elettronici, i magnetici, non finivano, non smettevano di suonare, mugolavano un suono appena passato, inventato, borbogliavano, canticchiavano, nel tratto di strada che andava dal palco di turno alla stanza dell’albergo o di qualche casa dove dormivamo; non smettevano, non si spegnevano allo spegnersi degli amplificatori, non si interrompevano cogli interruttori.
Ciò che, infatti, fa di Non nella Enne non nella A ma nella Esse un esordio sorprendente è proprio la cifra stilistica sottesa alla scrittura. Se Flaubert confessava in una celebre epistola la fascinazione verso «un libro sul niente, un libro privo di legami esterni, che si reggesse da sé grazie alla forza interna del suo stile», Mariana Branca traduce l’attrazione verso la musica di Nicolas Jaar in un viaggio interiore durato nove mesi – non a caso – in una sorta di clausura autoimposta nella città francese di Lyon in un piccolo appartamento con un gatto e un computer e un uso ossessivo e parossistico volto a cercare una lingua capace di esprimere il senso che si cela dietro ogni nome non solo attraverso una descrizione quanto più possibile vicina al potere intrinseco delle emozioni, ma ricorrendo alla parola stessa – ricercata – che con il suo solo suono fosse in grado di evocare il senso ultimo della “cosa” dietro le stesse lettere. La fragola d’argento di Potocki ridotta giorno dopo giorno a pallottola perfetta per centrare il bersaglio.
Non nella Enne non nella A ma nella Esse vive di questo, di un’emorragia espressiva, è un libro che appare quasi come una creatura di Cronenberg: è al contempo tanto un corpo caldo che sa trasmettere emozioni quanto un lavoro cesellato che tenta, riuscendoci, di far suonare la pagina scritta come una tastiera MIDI Roland JUNO-106.
Era lui, ne sono certo, era stato lui, che mi aveva fatto più spugnoso, più assorbente, più capace di cogliere, di tenere, trattenere le cose dentro e sentirle, starle a ascoltare. Era stato lui, coi silenzi, con le pause, con il suono e col rumore, con la malinconia che ancora non aveva nome, con i suoi occhi pieni d’acqua che mi costringevano ogni volta a guardarlo navigare, naufragare anche, lasciarsi portare dalle onde, via, chissà dove, sempre spinto da un sentimento o una sensazione, l’esitazione, la scoperta, il sapore. Era stata tutta quella musica, quella musica elettronica, quella musica da Centrale, che ci ammalò, che ci ammollò, la testa le ossa, il midollo dei pensieri.
Una sorta di esoterismo scientifico, di una poesia razionale in grado di restituire con il suono, la sintassi, il ritmo il riflesso della musica e delle sensazioni dei protagonisti di questo affascinante, sghembo, frammentato coming of age. Nel suo essere un oggetto contemporaneamente familiare e spigoloso, Non nella Enne non nella A ma nella Esse offre nella varietà dei registri usati tutta una serie di possibili sponde. Pur non potendo certamente derogare dalla materia che tratta – il percorso che porta Jaar da ragazzino folgorato sulla via dei ghetti newyorkesi (dal capolavoro di Ricardo Villalobos, Thé Au Harem D’Archimède) a star indiscussa dei club di tutto il mondo – Non nella Enne non nella A ma nella Esse è un libro che parla prima di ogni cosa dell’amicizia tra due ragazzi come forma declinabile a un livello altissimo di amore, di uno specchio dentro il quale potersi guardare per avere la misura certa – perché mediata dalla fiducia che accompagna il bene – del proprio posto nel mondo.
Così, esattamente così erano i suoi occhi, i suoi occhi blu pieni di blueprints, di immagini future, i suoi occhi cianografici come una carta lucida sensibilizzata con ferrocianuro di potassio e citrato di ferro ammoniacale, sulla quale, appena a contatto con l’acqua, apparivano tratti bianchi sul fondo blu scuro. Di notte, ancora più di notte che di giorno, ne erano pieni, di immagini future, e faceva fatica a mettere a fuoco per leggere, allora lui guidava e cantava Leonard Cohen e io leggevo tutte quelle informazioni sul Marcy Hotel.
Non nella Enne non nella A ma nella Esse è, in un suo modo peculiare e dentro il corpo di una scrittura che è facile definire elettrica, elettrificata – percorsa, com’è, da una tensione costante che ora spinge in avanti alla ricerca del suono perfetto, ora prende respiro per solcare radure di calma leggera quasi come se fosse davvero prodotta dalle mani di un musicista in grado di dialogare con una massa che balla sotto i propri occhi sapendone gestire emozioni e movimenti – un grande “romanzo” di formazione. Di Nicolas, certamente, figlio eletto di una storia familiare già proiettata verso la creazione artistica – il padre, Alfredo, è artista contemporaneo, architetto, fotografo e regista; la madre, Evelyne Meynard, una ex ballerina franco cilena alla corte della compagnia di Merce Cunningham – che, a partire da quelle radici così diffuse, ha cercato fin dagli esordi di scrivere una musica capace di fuggire le definizioni possibili per realizzare un suono che fosse soltanto suo – ma anche dello stesso Andrés che non ha paura o vergogna, piuttosto l’intelligenza emotiva di cogliere dietro il successo dell’amico fraterno la dimensione stessa della sua realizzazione di uomo, come di un discepolo al contempo osservatore felice della gioia dell’altro e parte integrante della stessa gioia.
Non solo: Non nella Enne non nella A ma nella Esse è – come ha giustamente evidenziato Lucio Leone, editor di Wojtek, scrittore e batterista del gruppo dei Lëv che accompagnerà la scrittrice nelle future presentazioni del libro – un testo dove continuamente “si aprono porte diverse”.
Ci piaceva Gordon Matta-Clark. Ci piaceva la linea di basso. Ci piacevano le linee che segano l’amalgama del cemento solido, le linee che sembrano segare l’amalgama di un organismo intero, il midollo nello scheletro. Le linee segate che fanno uscire l’umidità, l’umidume e l’umidore. Ci piaceva l’intristimento che intrinsecamente si tiene, intrinsecare l’intristimento e poi finalmente estrinsecarlo. La tristezza che si fa intrinsechezza e poi, in qualche maniera, si manifesta.
Ci sono descrizioni minuziosissime dei primi walkman, come della strumentazione elettronica, un drip painting fatto di lettere e suoni che delinea gli spazi e le emozioni degli snodi fondamentali della carriera di Jaar – su tutti il dj set al Marcy Hotel a Williamsburg NYC quando aveva appena diciotto anni – deragliamenti improvvisi da Henry Miller a Man Ray, da Michelangelo Antonioni alla concezione architettonica di Gordon Matta-Clark – “faceva in fette i palazzi, tagliava i palazzi, simmetrici esatti precisi, li scomponeva in placche geometriche, li eviscerava. Mostrava vedeva guardava osservava fotografava questa metamorfosi, il trapasso. Così affettato, voleva dire che il palazzo stava lì lì per crollare, deflagrare, cadere, morire” – ancora una volta: lo Spazio.
Quella luce color del piombo, quella cupezza notturna puntinata di candele, scontornava le cose e le persone, indistinti l’animato e l’inanimato colavano l’uno nell’altro. Le cose viventi e non, i corpi le mani i sacrari le croci gli incensi le teche d’oro gli sguardi al cielo, i vivi piangenti-gementi-in-ginocchio-piegati, e i morti imbalsama-ti-imbellettati-incipriati dentro rettangoli di vetro trasparente e con i fiori intorno.
Romanzo, racconto lunghissimo, in cui convergono nello spazio deformato di una fantasia reale o di una realtà immaginata i tratti rimescolati della storia della stessa Mariana, “nata un lunedì di marzo ad Avellino, cresciuta in una valle inghiottita dai monti Picentini, laureata in Architettura a Napoli, vissuta a Parigi, Bruxelles, Lyon, Torino, Londra, Roma, Lisbona” fino a ritrovare – come a capovolgere una delle più celebri citazioni di Pavese, l’importanza delle proprie radici.
Scritto dopo un’estenuante parentesi londinese “nella disperazione di scrivere come una sorta di consolazione sul foglio – una specie di terapia, di modo di riemergere a galla”, frutto di una ricerca forsennata, Non nella Enne non nella A ma nella Esse è un’immersione in un’altra vita che si è fusa con la memoria – finanche con la biografia della stessa Mariana – sostituendo all’una le esperienze dell’altra e viceversa. Il racconto di una tensione amicale irraggiungibile e perfetta fatta della stessa sostanza del suono.
Ecco allora riflesse nelle corse in bicicletta di Nicolas e Andrés, nei campi di barbabietole, nella scoperta della musica elettronica, nella prima automobile – la Twingo acquamarina che corre come un leitmotiv allegro e spensierato lungo tutto il libro – e quindi, ancora, nel peregrinare continuo di là da due mari le vite possibili della stessa scrittrice in un continuo dialogo tra esperienza personale e proiezione verso il percorso reale di un musicista che a un certo punto della sua vita ha realmente vissuto come una voce – un suono – che fosse autenticamente amica.
È come annegare, nella scoperta vogliosa di qualcosa, che non si consuma per inerzia o per noia, ma ti consuma, non ti lascia più stare, ti prende le mani e le spalle mentre cammini, mentre guardi un orizzonte che pensavi non fosse stato ancora inventato.
Non nella Enne non nella A ma nella Esse testimonia, in definitiva, la nascita di una voce autentica e deragliante capace di narrare un on the road emotivo, sentimentale ed elettronico seminando indizi, nascondendo ordigni e confondendo, mescolando i possibili percorsi di iniziazione, di crescita, di vita di ogni possibile vita.