Con le due serate di concerti romani, Nicolas Jaar ci ha fatto una sorpresa annunciando il nuovo album direttamente sul palco dell’Auditorium Parco della Musica. Archivos de Radio Piedras contiene 49 tracce: un progetto partito come opera radiofonica, tracce sperimentali condivise su un canale Telegram che si sono dilatate in una raccolta di paesaggi e intagli sonori. Che Jaar si diverta a sperimentare non è una sorpresa: la sua vocazione artistica è abbattere frontiere, condurre l’ascoltatore oltre il limite del proprio corpo, stimolare un’affascinante sintesi tra linguaggio riflessivo e selvaggio. La tappa del concerto romano va in questa direzione.
Nicolas Jaar sale sul palco avvolto in una lunga giacca di fumo, e prende posto nella sua dimensione naturale, dietro i macchinari sonanti. Parte della sua arte sta nel trasformare lo spazio vuoto in suono che riempie una sala intera. Le luci sono basse, Jaar si presenta nel suo italiano, ed è subito chiaro che stasera ha voglia di sperimentare, liberare l’istinto, catapultare il pubblico in un’altra dimensione.
La prima parte del concerto è improvvisazione. Jaar ci invita a entrare nel suo appartamento privato e nella sua testa: con questo concerto ci ha recapitato uno speciale invito all’ascolto del suo personale processo di composizione. Mentre muove e si destreggia tra gli strumenti, compone e sperimenta davanti a noi. Filamenti di suoni e rumori si integrano e disintegrano a turno, una estemporanea nota di clarinetto basso si infiltra nella traccia, incanto e straniamento stordiscono la platea. Siamo in un teatro e siamo nel deserto: chiudiamo gli occhi e siamo ovunque, al cuore di una performance che mescola visioni elettroniche, strumenti a fiato processati, computer dissonanti, arrangiamenti essenziali, colpi e sferzate di suono. È una parte complessa di straniante fecondo jam.
L’improvvisazione è un altro aspetto della natura di Jaar, un’attitudine da investigatore di suoni. C’è una dose rara di sincerità nella sua voce, una spontaneità spericolata e randagia che ispira a vagabondare tra pensieri, suoni, rumori, sample. L’atto magico si fa sovversione, e consente un abbandono alla musica e all’arte in generale.
Isole, il libro che il musicista pan-americano ha da poco pubblicato in Italia per l’altrettanto sperimentale casa editrice Timeo, è un’altra prova del talento jamming di Jaar, della sua vocazione a mixare linguaggi. La sua isola è affollata di visioni: nel libro si sovrappongono parole e storie riemerse dai giorni vissuti a Torino guardando il corso del Po. Quando Jaar è passato in Italia per presentare Isole, ha raccontato di aver deciso di fermarsi a vivere a Torino senza pensarci, per amore del fiume che scorre. La parola è venuta fuori naturale come la musica. Un flusso ispiratore alla continua ricerca.
Jaar è una specie di irrequieto furetto che passando attraverso luoghi e movimenti riesce a tirare fuori l’arte dalle esperienze dirette. Paesaggi sonori, elettronica di sperimentazione, contaminazioni tra mondi. Le sue produzioni sono stratificate, complesse, diverse. Come il cantore di Whitman, anche lui contiene moltitudini. La sua esperienza da cileno-statunitense è continuamente aperta al mondo: da suonatore per le strade d’America, a intagliatore di beat elettronici, da agitatore di danze nei club, a portavoce di lotte politiche sulla scia del padre, Alfredo Jaar, il visionario artista cileno che ha avuto una grande influenza sul figlio.
Il palco è la dimensione perfetta per cogliere la natura istintiva, selvaggia, e profonda, della musica di Jaar. La sua elettronica è una continua sperimentazione di pulsioni, un tentativo di avvicinare terre attraverso la lingua universale che è la musica. Per questo tenta di dare voce berbera al clarinetto mentre intaglia sonorità che riverberano vecchie connessioni con il suo materiale. Là c’è una reminiscenza di un assolo di sassofono, e oltre là uno schizzo electro, fracassi e silenzi.
Musicista, produttore, fondatore di etichetta: c’è una legione di suoni che si agita nei sotterranei di Jaar. Da appassionato ricercatore dipinge paesaggi astratti e minimali che possono provocare disorientamento. Ci racconta che durante l’ultimo concerto, quando ha cominciato la sperimentazione dal vivo, una parte della gente se n’è andata, e ringrazia il pubblico dell’Auditorium. Poi si apre, si lascia andare, dilata i suoni.
Se l’anima di Jaar è mille terre insieme, con la sua musica ha trasformato la sua patria estesa in una narrazione universale. I frammenti dei suoi pezzi, le aperture alari dei beat, sono spesso vocate ai dimenticati. Per questa ragione, quando sul palco dell’Auditorium passa dall’improvvisazione a suonare un pezzo dall’album Sirens – NO – la gente si mette a sussultare. È il Jaar audace che fa muovere i corpi, quello che vuole fare del club un luogo di protesta, il Jaar che si riconnette al cuore di un’elettronica che canta e decanta il suo no di rivolta – Ya dijimos no – e ci invita a una riconnessione con il suono come linguaggio universale.
Non dimentica il Cile, la dittatura di Pinochet, i tanti esiliati e desaparecidos. Non dimentica nemmeno la Palestina, terra d’origine della famiglia paterna, quasi che una maledizione avesse messo a vagare i Jaar, e l’arte, la musica, i canti, fossero modi di accesso per risalire a un punto di origine. Nicolas Jaar non manca di rivolgere un appello al cessate il fuoco su Gaza dopo aver suonato un pezzo nuovo, un canto in lingua spagnola che evoca le fosse comuni. Si commuove, lascia il palco per qualche minuto, quando torna ha voglia di fare un regalo al pubblico.
Non gli piace suonare i classici di repertorio, dice. Forse non è nella natura di chi guarda in avanti. Stasera però vuole fare un’eccezione, regalarci un classico da uno dei suoi dischi più belli e affilati, un disco del 2011 dove canta che lo spazio è solo rumore, che un club o un teatro o una sala possono essere immensi spazi vuoti da ricoprire con rumori e suoni assordanti. È un ritorno sentimentale al disco dell’astratto punto zero geometrico dove si intersecano paralleli sonori, linee sovrapposte di rumore, imponenti pareti elettrificate.
Jaar conclude il concerto del sabato con Space Is Only Noise If You Can See e anche il teatro finalmente si lascia andare. La gente si alza dalle sedie, diserta la postura da concerto seduto, va sotto il palco a muovere il corpo e lasciarsi andare alle danze. È la perfetta conclusione del concerto di un musicista che continua a cercare forme nuove di espressione, movimenti ciclici, territori di catarsi che sono suoni, rumori, intrusioni digitali nel cuore analogico del mondo.
L’Auditorium si commiata, Jaar lascia il palco. Siamo stati condotti in un esperimento d’arte, il teatro ha reso la musica più corporea: abbiamo sentito le pareti elettrificate, il rumore fisico dei passi sul pavimento, siamo riemersi all’esterno, la mente carica di suoni.
Tutte le foto sono di Alise Blandini