I fantasmi di Nick Cave

Nick Cave ha cominciato a pubblicare album 40 anni fa. Door, Door è il disco di esordio dei The Boys Next Door, il progetto nato insieme a Mick Harvey e primissimo vagito sonoro dei futuri The Birthday Party. A quel tempo c’era tutta la ferocia del punk nella voce di Nick Cave, e quelle atmosfere di violenza sovversiva si tramutarono presto in una curiosità ruvida che negli anni Ottanta spinsero il cantautore australiano a setacciare suoni ed esperienze a Berlino. I Nick Cave and The Bad Seeds nascono da una presa di coscienza: c’è qualcosa di speciale in questo ragazzo australiano, nella sua voce cavernosa che trascina verso dimensioni altre, nella spinta propulsiva che riesce a mettere sul palco, nelle atmosfere che è capace di evocare con le parole. Bisogna metterlo al centro Nick Cave, insieme ai suoi semi cattivi che suonano come oscure ed eleganti divinità. Il disco di esordio dei Bad Seeds, From Her To Eternity, inizia con una cover spettrale di Avalanche di Leonard Cohen, e tocca la sua vetta artistica portandoci a fondo dentro l’abisso di una title-track tetra, fulminante, incendiaria. Non si sono mai fermati, da allora, i Bad Seeds – anche mentre si alternavano, mutavano pelle senza cambiare anima. E se a quarant’anni di distanza siamo qui, ad attendere un nuovo album dei Bad Seeds con intrepida emozione, per poi lasciarlo andare per intero quando viene fuori, ci deve essere davvero qualcosa di speciale in questa storia cominciata nel 1979 e che ancora non smette di raccontarsi.

Nick Cave è un grande artista del nostro tempo. Nel corso della sua lunga carriera ci ha consegnato vere e proprie opere d’arte, parole agitate da sentimenti sinceri, musiche straziate da dèmoni interiori, benedizioni e maledizioni percosse dal ritmo di un assolo, di una batteria, dalle note di un pianoforte o da un unico sussurro gridato: le sue canzoni, il suo rock e la sua musica, le sue storie (basti pensare alle Murder Ballads), hanno sempre avuto un po’ l’effetto di un esorcismo sullo spirito. Eppure forse mai come nel caso del nuovo album Ghosteen ho avvertito lo speciale potere mistico della catarsi artistica, quel brivido che si sente nell’essere letteralmente trascinati fuori da sé per lasciarsi disperdere verso altri mondi. Ghosteen è tormentato e byroniano, un’opera devastante che sembra emersa dalla brughiera: come un Manfred lacerato o il protagonista di un romanzo di spettri, Nick Cave canta il dolore e l’abisso di un uomo che evoca forze oscure, le richiama intorno a sé, agita fantasmi, divinità e l’umanità tutta. Ghosteen è un poema umano e un’invocazione al cielo – qualunque cosa significhi per ognuno di noi. Come una forza della natura, Cave è devastante nel riuscire a prendere la sua vita e la sua esperienza al singolare (la scomparsa del figlio Arthur) per renderla universale, cantarla per l’intera umanità. Sentiamo con lui questo vuoto, questa assenza che lascia la morte, e tutta l’incapacità di comprenderla; avvertiamo il terrore di un uomo che si abbandona al tormento per restare agitato di fronte ai suoi fantasmi, la tensione spirituale che si fa inquieta ricerca di fede verso qualcosa di più misterioso e non meglio specificato.

Chi abbia già affrontato l’esperienza di ascoltare Ghosteen – esperienza terrificante, dolorosa, edificante – sa che il disco è diviso in due parti: una racconta i genitori, l’altra i figli. Tuttavia l’album sa tanto di un unicuum, dove è presente una continua invocazione alla pace – come oblio e dimenticanza, forse eterna. A partire dalla canzone che inaugura il disco, Spinning Song, Cave cambia addirittura tonalità di voce per recitare una piccola elegia che implora: «peace will come, a peace will come, a peace will come in time». Lancinante. Ci tornerà sopra nello straziante e tetro pezzo di chiusura Hollywood – «and I’m just waiting now, for peace to come / and I’m just waiting now, for my time to come» – dove per 14 minuti la tensione cresce fino allo splendido ritratto della storia di una donna di nome Kisa, che prova disperatamente a salvare il suo bambino morto, ricevendo una piccola perla di saggezza da Buddha: tutti quanti perdono qualcuno. Hollywood, che non disdegna l’uso di rime, è un crescendo spettrale anche musicalmente, cori ignoti accompagnano il viaggio immaginario tra i fantasmi di Nick Cave – eppure non c’è scampo: tutti quanti perdono qualcuno.

E allora c’è spazio per evocare e conservare la memoria di ciò che è andato perduto. Bright Horses si apre con un lamento atroce sopra le note delicate e ossessive di un pianoforte: «and I’m by your side, and I’m holding your hand» – sono ancora qui a tenerti la mano, ad aspettare che torni a casa con il treno delle 5 e mezza, e anche fosse impossibile in questo mondo di fantasmi perduti e in questo tempo che non esiste diventa tutto possibile. È possibile rievocare, è possibile cantare, è possibile invocare, pregare: è possibile lasciar suonare il pianoforte e aspettare il ritorno, la speranza di ritrovarsi. Waiting For You diventa così una bellissima ballata d’amore in pieno stile Nick Cave and The Bad Seeds: e se in The Boatman’s Call l’assenza non era irreparabile, qui si sente la fatalità del per-sempre di questo vuoto, e la voce di Nick Cave si fa più dolorosa e tragica. Sentiamo questo potente strumento umano che canta riuscendo a tirar fuori tutto il tormento della perdita e del lutto; eppure nelle calde note di quella voce si avverte pure tutta la miserabilità della condizione umana che continua disperatamente a sperare, a conservare la sua illusione. Persino nel ticchettio irreparabile di una campana in Night Raid. Assorbiamo il dolore che tocca questo padre, e tutti quei genitori perduti in un inquieto vagare dentro una Sun Forest immaginifica – dove verità e bellezza non trovano più senso, e quel che resta è la memoria come speranza di salvezza. C’è tutta la tragedia del poeta in Ghosteen, una tensione spirituale in eterna ricerca di catarsi. C’è l’inseguimento dei fantasmi, e una storia di fantasmi – perduti, apparsi, cercati o mai visti; c’è il vagare atroce a bordo di un Galleon Ship, c’è una nave che va verso il chissà dove.

Non è certo la prima volta che Nick Cave compone mondi ignoti rendendoli visibili, e se questa volta siamo toccati in maniera speciale dalla costruzione di questo mondo fantasmagorico (rievocato sin dalla copertina) è perché viviamo in modo ancora più diretto la sua storia e il suo strazio, perché sappiamo della morte di Arthur, e perché ce l’aveva già raccontata in Skeleton Tree. Sono tanti i modi per esorcizzare un lutto: Nick Cave lo fa nel suo stile, recuperando direttamente dalla sua tradizione artistica, ovvero scegliendo la poesia e la canzone come forme per rimodellare quel lutto. E quando il fantasma parla e trova voce in Ghosteen Speaks ci rendiamo conto che fantasma è lo stesso Nick Cave: uno spettro dall’aspetto umano che vaga irrequieto, che ci strazia urlando la sua presenza all’altro fantasma irraggiungibile che invece è andato via. Un pezzo che è il preludio perfetto alla tragicità di Leviathan, dove le atmosfere cupe in stile Bad Seeds tornano padrone, e come se le nuvole coprissero ancora il cielo ci lasciamo trascinare via da un’immagine che appare come un’unica grande ascensione tra inferi e stelle, che si condensa nelle parole di Cave: «I love my baby and my baby loves me» — dove l’amore è questa cosa tormentosa che ci compromette tutti.

E così arriviamo alla devastante tragedia finale con la seconda parte del disco, che diventa sempre più dilaniante come un ticchettio disperato che colpisce sotto pelle, che ci annienta a tratti con un ultimo assalto al cuore, fino a penetrare nella radice di cosa significa perdere qualcuno che abbiamo sempre avuto l’istinto di proteggere dal mondo. In passato Nick Cave ha cantato invocazioni a divinità astratte: proteggi questa persona, fa che sia protetta, che non venga toccato un capello dalla sua testa; ora c’è tutta la fragilità di non poter fare niente. Ha anche già cantato di fantasmi, di notturni, di anime morte o assassinate, con quella speciale predilizione per le ballate dark-rock che da sempre contraddistingue la sua opera. I fantasmi di Nick Cave – in un certo senso – sono sempre stati al suo fianco. Ha cantato storie per l’umanità, invocazioni, confessioni, rapsodie, è sempre stato un genere particolare di poeta tragico con le sue evocazioni, la sua musica e la sua voce, ci ha sempre raccontato un mondo bellissimo e altrettanto insostenibile. Stavolta però il fantasma danza insieme a lui, e si sente. Ghosteen è uno di quei dischi che va ascoltato dall’inizio alla fine con i testi a portata di mano da seguire passo dopo passo, canzone dopo canzone, come se fossimo a teatro per un’opera (anche se fosse per una volta soltanto, ne varrebbe la pena): è lì che si coglie l’intero album, nell’attraversare l’intero notturno di Nick Cave, di un uomo, di un poeta, e della tragedia che mette in scena, racconta e musica.

Quando fatalmente arriveremo alla title-track saremo già a pezzi, e per 12 minuti ci tortureremo anche noi: sapremo che il mondo è bello ma costellato di dolore, che esistono navi che vanno sulla luna e danze disperate, che Warren Ellis è una garanzia alla produzione, che i semi cattivi lasciano crescere frutti squisiti – arriveremo al limite dell’infezione, fino alla rivelazione dello straripante spoken word di Fireflies: «we are here and you are where you are» [nella sua semplicità una delle più belle immagini dipinte dal disco: noi – io e Susie – siamo qui, e tu sei dove sei; non posso sapere con precisione dove sei finito, se sei ancora intrappolato in uno spazio ultraterreno o sparito per sempre, nemmeno Buddha ha le risposte, non trovo pace, voglio pace – e questo è quanto]. C’è così tanto splendore in questo disco che mette i brividi dall’inizio alla fine: un’opera che racconta la storia più eterna di tutte, l’uomo di fronte alla morte e la sua dannazione. In questo senso il problema del se si tratti di uno degli album migliori o meno della lunga produzione di Nick Cave and The Bad Seeds, passa in secondo piano – o più semplicemente, non ha senso discuterne. Ghosteen è un’opera d’arte e tormento in cui immergersi, che ci concede il lusso della trasgressione alla realtà. Quando di recente un fan ha chiesto a Nick Cave cosa ne pensasse dello stato attuale della musica rock, lui ha risposto che «la trasgressione è fondamentale per l’immaginazione artistica». E allora perdiamoci in questa annichilente esperienza di immaginazione — per la realtà avremo tempo.

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