Una canzone ha lo straordinario potere di scoperchiare tetti e di addentrarsi senza far rumore in stanze segrete. Un album rappresenta, invece, un sentiero su cui camminare lentamente, quasi a passo di danza tra un ricordo e una chimera, alla scoperta di nuovi orizzonti e prospettive. In un giorno di aprile bagnato da un sole carico di pioggia è arrivato Una somma di piccole cose, un disco realizzato per aprire gli occhi agli osservatori distratti e per riempire di note anche le orecchie di chi non ha mai imparato ad ascoltare.
In vent’anni di carriera Niccolò Fabi è il cantautore italiano che ci ha maggiormente abituato a riflettere sulla bellezza delle cose semplici, indicandoci scorci da ammirare e spronandoci ad analizzare in profondità i sentimenti umani. Per lui la maturità è arrivata presto, passando dai toni leggeri di Capelli al rancore per una storia finita male in Lasciarsi un giorno a Roma. Il suo ottavo album va, però, al di là della bravura e della precisione filologica, si tratta di una questione di sensibilità artistica che non si acquisisce, ma che è sempre stata parte del corredo genetico di Fabi.
Con le sue nove tracce Una somma di piccole cose è un disco che gonfia e alleggerisce il cuore nello stesso istante in cui chiudiamo gli occhi per aprirli su cieli blu inondati di nuvole che scorrono rapide da un finestrino in movimento. Il sole sorge e affoga in un tramonto rossastro mentre voce, chitarra e piano riempiono il vagone che ci culla lontani. Ascolto dopo ascolto il tempo scivola inesorabile, ma è come se non passasse: le parole sono chiare e i suoni fanno vibrare l’aria fin dalla prima traccia, manifesto ed elenco di questa “somma” che ci fa sorridere e versare lacrime di nascosto.
Registrato nelle campagne laziali alle porte di Roma l’album risente della lontananza dal caos urbano della capitale, soprattutto in brani come Ha perso la città, sguardo sulla metropoli che allontana le persone o in Filosofia agricola, un inno che celebra l’armonia tra uomo e natura. La dimensione testuale non trova l’apice soltanto quando si tratta di affrontare tematiche ambientali, Fabi ha lasciato da parte le festose ed effervescenti atmosfere del precedente album scritto a sei mani con Max Gazzè e Daniele Silvestri, gli amici di un’intera vita sul palco, per ritrovare le proprie radici emotive.
Certe canzoni non hanno filtri, sono immediate e pronte per la condivisione come la copertina del disco scattata dalla fotocamera di un cellulare. I ricordi scorrono in bianco e nero in un album di fotografie, pagina dopo pagina sulle scie acustiche di Facciamo finta, una fiaba dolcissima e malinconia scritta per essere narrata a un bambino, quel bambino che continua a vivere in ogni adulto. Le sonorità, invece, sfiorano gli arpeggi di cantautori e band folk americane come Bon Iver, Wilco, The Tallest Man On Earth, Iron and Wine o Sufjan Stevens. Nelle orecchie possiamo sentire le stesse chitarre, gli stessi sospiri che superano qualsiasi urlo, ma anche la forza impetuosa di ogni filo d’erba che viene smosso dal vento e ciò nonostante continua a resistere.
Questi nove racconti potenti nella loro fragilità non sono tracce da masticare e digerire, basta gustarle e sentirle sul palato per esserne sazi. È la vita quotidiana la vera protagonista, quella in cui inciampiamo tutti i giorni e che si trova ovunque, anche in Una mano sugli occhi, una delle dichiarazioni d’amore più eleganti che potessero essere scritte per chi è sempre lì a ogni risveglio. Intanto i paesaggi scorrono dal finestrino, la montagna diventa pianura, passano i laghi e i fiumi fino ad arrivare al mare in burrasca e noi ci sentiamo così vicini allo splendore che canta Niccolò Fabi che non ce la sentiamo proprio di scendere dal treno e terminare il nostro viaggio insieme. Così è successo che abbiamo fatto ancora un paio di fermate e poi siamo tornati indietro.