Più passano gli anni e più il Newport Folk Festival è associato al Dylan eretico, quello della bestemmia, quello che nella cattedrale della canzone acustica in purezza lancia dal palco “bordate elettriche” ferendo al cuore quel pubblico che qualche anno prima lo aveva cosacrato re del folk. È certamente un episodio e un momento importante su cui ci soffermeremo, ma l’intento qui è anche quello di dare la giusta collocazione a un Festival così importante e pionieristico per tanti altri aspetti, che altrimenti rischia di dissolversi nel tempo. Anche perché non è solo il festival, ma la località stessa di Newport, nel Rhode Island, a rivendicare un ruolo di primo piano nelle vicende musicali del secolo scorso, poiché fu sede anche del primo Jazz Festival svoltosi all’aperto, con nomi di tutto riguardo e una partecipazione di pubblico inaspettata. Ci sono figure chiave che meritano di essere rimesse al centro degli avvenimenti perché prima degli anni Sessanta e della stagione dei grossi raduni, inventarsi appuntamenti live di tale portata, mettendo sul palco il meglio che la scena musicale proponeva, per di più periodicamente e anche con l’intento di scoprire nuovi talenti, non era per niente semplice. C’è un personaggio, George Wein, che unisce in carne e ossa due grossi eventi che negli anni segnano la storia musicale di Newport e per certi versi della musica in generale, vale a dire il Newport Jazz Festival e il Newport Folk Festival.
Newport Jazz Festival
Il 17 e 18 luglio del 1954, sollecitato e finanziato dai benestanti coniugi Lorillard, Wein mette in piedi la prima edizione del Newport Jazz Festival. George Wein è un affermato pianista e possiede lo Storyville, un importante locale di Boston a cui ha affiancato anche delle produzioni musicali tramite un’etichetta. Per comprendere meglio la portata della novità bisogna inquadrare il jazz per quello che era in quel periodo: una musica ancora scomoda per tanti, che si trascinava dietro tutto l’irrisolto della questione razziale. A Newport risiedeva una delle borghesie più ricche di tutto il paese, poco incline a sopportare le novità di un Festival di tale portata nella cittadina balneare. Ma Wein non si fece fermare dalle difficoltà ambientali, anzi, per certi versi rilanciò, affiancando ai concerti, dibattiti e incontri sull’origine del jazz; discussioni dalla portata culturale affatto scontata specie in un momento storico segnato ancora, in molte zone del paese, da un preoccupante razzismo.
Il festival, per certi versi pionieristico, fu da subito un successo, superando le diecimila presenze e aprendo un ciclo destinato a durare decenni, inaugurando una sorta di format che sarà mutuato in seguito anche da festival di altri generi musicali. Sul palco si alternarono nomi del calibro di Ella Fitzgerald e Billie Holiday, Dizzy Gillespie e Oscar Peterson, Gerry Mulligan e Stan Kenton. La rassegna resisterà negli anni anche cambiando sede, infatti nel 1972 si sposta per qualche anno a New York, per poi tornare a Newport nel 1981. Grazie a quel successo e a quella partenza, nella testa di Wein cominciò a frullare un’altra ambiziosa iniziativa, simile nei modi, differente nel genere musicale.
Newport Folk Festival
Il folk, il cantautorato di protesta, quello tatuato sulla chitarra di Woodie Guthrie da cui tanto ha avuto inizio, si concentra e prende corpo probabilmente nel Greenwich Village di New York, luogo di ritrovo di molti folksingers o aspiranti tali. Tuttavia un palco vero e proprio lo trova senza dubbio a Newport, non tanto distante dalla “grande mela” ma abbastanza per creare una sorta di pellegrinaggio annuale che a inizio anni Sessanta metterà una pietra angolare per la costruzione di un vero è proprio “luogo sacro” della musica folk; di quella canzone di protesta fatta di sola voce e chitarra con qualche sussurro di armonica e talvolta lo scalciare dei piedi a terra per portare il tempo. Quel palco, a Newport, come accennato, è noto per il grande oltraggio di Bob Dylan, ma resta decisivo anche per essere stato il trampolino di lancio di tantissimi altri giovani cantautori, e ancor di più per essere una sorta di termometro sociale, di misura dello stato di salute di quel genere musicale così strettamente legato agli umori dei musicisti “ribelli” di quel periodo. I primi raduni folk avvengono tra il 1958 e il 1959. Pare che la prima edizione ufficiale sia proprio quella del 1959. Uno dei primi ad avere successo e conquistare le simpatie di quel pubblico che andava formandosi fu senza dubbio Pete Seeger, che eseguiva tra l’altro alcune delle canzoni di protesta scritte con il capostipite di tutti i cantautori americani, Woody Guthrie. Una linea di continuità che da Guthrie influenzerà tutti, a cominciare dal menestrello di Duluth, Bob Dylan. Ad avviare e strutturare il Newport Folk Festival, forte dell’esperienza in corso con il Newport Jazz Festival, è ancora George Wein, questa volta in collaborazione con il suo socio Albert Grossman, tra le altre cose manager proprio del giovane Dylan. Dopo le prime due edizioni, a cui avevano partecipato nomi in vista come Pete Seeger, Odetta, John Lee Hooker e una giovanissima Joan Baez, la manifestazione si blocca per mancanza di fondi.
L’edizione del 1963
Wein non si dà per vinto, intuisce le enormi potenzialità future e sicuro della prospettiva e del successo prossimo, utilizza gli anni di pausa per creare delle basi più solide e strutturate. Si assicura la collaborazione proprio di Seeger, per preparare una nuova edizione da tenersi dal 26 al 28 luglio del 1963. Si fanno le cose in grande, puntando sia sulla qualità, con i migliori artisti del momento in ambito folk, che sulla quantità; saranno infatti un centinaio i musicisti coinvolti, e si incrementerà il numero dei “workshop” arrivando a una ventina di incontri. 45000 persone affolleranno la tre giorni per un incasso di circa 52000 dollari. La formula è vincente, aiutata anche dallo spirito dei tempi, poiché proprio in quell’anno si intensificano le marce pacifiste e le manifestazioni per i diritti civili, e i cantautori saranno ancora più seguiti e riconosciuti come portavoce di quelle posizioni, di quegli stati d’animo, di quelle istanze generazionali. A Newport si concentrano ben presto tutti i principali cantautori e cantastorie del tempo, tutti lì, insieme su quel palco ritrovato: Peter, Paul & Mary, Pete Seeger, Joan Baez, lo stesso Bikel, fino ai principali esponenti del Greenwich Village da Phil Ochs a Peter La Farge a Ian & Silvia. E naturalmente Bob Dylan. È il suo anno, quello cruciale. A maggio esce The Freewheelin’, suo secondo lavoro, mentre partecipa in prima fila a molte importanti manifestazioni, con le sue ballate contro la guerra e il razzismo.
Naturalmente la sua presenza a Newport lo consacra a nuovo idolo e il suo brano “Blowin’ in the wind” sarà il canto collettivo sul palco a chiusura di quella memorabile edizione del Festival. Quel momento probabilmente può essere considerato simbolicamente l’apice di tutto quel movimento folk. In quei pochi anni si assiste, se non alla nascita, sicuramente alla trasformazione e alla stabilizzazione di un vero e proprio cantautorato, legato all’impegno e al racconto delle vicende umane e sociali, molto spesso anche con una partecipazione attiva dei protagonisti. La stessa forma canzone viene modificata, dai classici due minuti e poco più, si passa talvolta a più del doppio, con la parola, il testo, che acquisisce un’importanza pari se non in certi casi superiore alla musica stessa. Questo legame con la realtà in fermento, come detto, farà dell’edizione del 1963 la più importante dal punto di vista complessivo, per partecipazione, cast artistico e spirito di lotta che comincia ad attraversare il paese, anticipando nelle pulsioni quello che succederà di lì a poco a livello culturale artistico e sociale.
Il Festival continua
La creatura di Wein ha preso forma e forza, si consolida in fretta e andrà avanti per decenni. Anche l’edizione del 1964 sarà memorabile. A livello musicale alcune cose cominciano però a cambiare nel Paese, con l’inizio della British Invasion, ovvero l’arrivo da oltreoceano delle band inglesi, capeggiate dai Beatles che porteranno nuove sonorità, o, da un altro punto di vista, restituiranno, rivisitata, agli States, la lezione del rock’n’roll sbarcato qualche anno prima in Europa e in Inghilterra in modo particolare. La scossa tellurica della Beatlemania a livello mondiale vede nel Sessantaquattro un anno decisivo con la tournè che appunto per la prima volta tocca l’America. Resta inteso che i Fab Four sapranno far tesoro anche dell’incontro con Dylan per assorbire nel loro bagaglio artistico la lezione del cantautorato americano in auge proprio in quegli anni, e che poi successivamente comincerà a lasciare traccia anche nella discografia beatlesiana prima e in quella individuale di alcuni di loro poi, di Lennon ed Harrison in particolare.
Il “rinnegato” Dylan
Si arriva così alla tanto “scandalosa” edizione del 1965, quella del “rinnegato” Dylan.
L’amarezza e la delusione molto probabilmente sono proporzionate alle aspettative che c’erano, alla fiducia riposta nel menestrello di Duluth, cresciuto con tutte le stimmate, i crismi e le prerogative del profeta, sin dalla sua infanzia. All’inizio degli anni Sessanta era solo un ragazzino del Minnesota scappato da casa per seguire il suo sogno. In uno degli inverni più rigidi che si ricordi a New York puntò direttamente su East Orange, per vedere da vicino la casa del suo idolo, Woody Guthrie, riferimento di tutti i folksingers per la sua vita passata a girare l’America a cantare canzoni di lotta e di libertà. Da mesi frequentava il giro dei musicisti finché arrivò l’occasione e lui non se la fece sfuggire. Prendiamo in prestito le parole di Robert Shekton, che nella sua biografia narra mirabilmente i luoghi e i colori di quei primi giorni di Dylan a New York:
“Al numero 11 di West 4th Street a New York, vicino alla vecchia Bohemia del Greenwich Village , si ergeva un palazzo di sei piani di pietra rossastra piuttosto sudicia, costruito nel 1889 e un tempo fabbrica di pistole a spruzzo. Al pianterreno c’era una specie di saloon chiamato Garde’s dal nome della prosperosa tenutaria del secolo scorso. Dal 1958 il locale era gestito da Mike Porco, un affabile calabrese con baffetti sottili, lenti spesse e un accento anche più spesso delle lenti, e dal gennaio del 1960 era diventato un club musicale, ‘centro della musica folk a New York’ ”.
L’11 aprile del 1961 fu il giorno. Mike Porco diede al giovanissimo Dylan la possibilità di suonare da spalla al bluesman John Lee Hooker. Il ragazzino del Minnesota interpretò con trasporto le sue canzoni a cominciare da quella “Song to Woody” scritta per il suo maestro. John Hammond, l’uomo che aveva scovato negli anni Trenta Bessie Smith, che aveva portato alla ribalta Robert Johnson e che a inizio anni Settanta farà lo stesso con Bruce Sprinsteen, produsse artisticamente per la Columbia il primo LP di Bob Dylan, dando il via a una leggenda e a una carriera che ancora durano. L’ascesa, come già visto, a inizio anni Sessanta fu imponente e rapida, e nessuno pensava fosse un azzardo riportarlo sul “suo” palco di Newport nel ’65, nonostante qualche mese prima avesse dichiarato seccamente: “Adesso scrivo canzoni per me stesso”, prendendo in qualche modo le distanze dai suoi primi anni di carriera. Il 25 luglio del 1965 il pubblico era pronto ad ascoltarlo ancora una volta, ma restò intontito dall’attacco della prima canzone, una scarica elettrica a un volume mai udito prima da quelle parti che lasciò tramortiti tutti tra stupore e incredulità. Dopo qualche minuto iniziarono i fischi e le proteste di una parte della folla, l’altra parte voleva invece che continuasse. Dopo tre canzoni si ritirò con la sua band dal palco. Nel backstage qualcuno riuscì a convincerlo a imbracciare ancora una volta una chitarra acustica e un’armonica raccattata tra il pubblico e a rimettersi sul palco per ritornare a essere per qualche minuto e un paio di canzoni il Dylan di una volta, ma non era né un ripensamento né un nuovo inizio, semplicemente il suo saluto. D’altra parte la scelta di iniziare l’esibizione con “Maggie’s Farm”, tratta da “Bringing It All Back Home”, il primo disco della trilogia elettrica, indicava la sua nuova strada, diversa da quella acustica e rigorosa del palco di Newport.
Segni di modernità
Nel ripercorrere le vicende del Festival Folk di Newport, e in parte anche di quello Jazz, non si può non vedere la lungimiranza di alcune scelte messe in campo che davvero segnano un solco per quasi tutti gli organizzatori a venire. Sin da subito colpisce la creazione di workshop, incontri e dibattiti tematici, per arricchire la proposta culturale, collaterale al live, da offrire e allo stesso tempo far crescere il protagonismo anche di chi vi partecipava. Ma forse l’aspetto che balza di più agli occhi in questo caso è la comprensione di quanto fosse importante registrare e pubblicare molto di quel materiale live, in una serie dedicata al Festival. Grazie a quella intuizione si conservano su vinile molte delle storiche esibizioni di Newport, non solo quelle più note a due voci Baez/Dylan o Dylan/Seeger, ma anche tutto un mondo bluegrass che rappresentava una importante realtà in quel momento, oltre a cantautori apparentemente minori ma che invece costituivano la sostanza e la forza di un movimento che iniziava ad avere il suo riconoscimento, gettando le basi, negli anni a venire, per buona parte di quel cantautorato che si sarebbe esteso ben oltre i confini del Rhode Island e dell’America stessa.