Alcune band incarnano tutto un intero immaginario musicale, trascendono i limiti del periodo storico in cui la loro discografia è collocata per diventare pietre miliari, leggende vere o presunte della musica. Seminali. I New Order sono sicuramente tra questi, ed al solo nominarli, evocano una serie di frame mentali: Joy Division, la Manchester degli anni ’80, Factory Records, synth-pop.
La data alle Officine Grandi Riparazioni è stata fin dal suo primo annuncio, risalente al tardo 2017, una di quelle occasioni-evento a cui prendere parte rigorosamente, come un grande accadimento collettivo circondato da un’aura quasi mistica, complice anche la grande attesa per un giorno da segnare sul calendario che sembrava non arrivare mai, con il rischio di veder sfumare nel nulla questa opportunità. Un loro concerto è un’occasione quanto mai rara, poco avvezzi come sono alle apparizioni live, da potersi ritenere un vero regalo. Non c’è da stupirsi quindi che la coda alle porte d’entrata della grande Sala Fucine parta molti metri prima, a ridosso dei cancelli d’entrata, in un’ordinata serpentina, che insieme al cielo torinese di questo strano maggio dal sapore autunnale, gonfio di nuvole ed acqua, rendono l’atmosfera quanto mai british. La grande ex sala di riparazione locomotive si riempie poco a poco, gremita nonostante la ridotta capacità per motivi di sicurezza, rispetto al potenziale numero di persone che questo grande, buio antro di acciaio a mattoni sarebbe in grado di accogliere.
Le anticipazioni ci dicono che quello a cui stiamo per assistere sarà un evento piuttosto diverso da un semplice concerto, uno show dal titolo “So It Goes …” ideato insieme al visual artist Liam Gillick, che sempre per OGR ha curato pochi mesi fa la mostra “Like a moth to a flame”, e durante il quale la band è accompagnata da una vera e propria orchestra di synth, con tanto di direttore a lato del palco. L’imponente scenografia, purtroppo un po’ sacrificata a causa del basso soffitto nella parte centrale, è costituita da 12 pannelli rialzati rispetto al palco, che a luci accese, prima dello show, costituiscono un’enorme parete bianca simile ad una saracinesca chiusa, su cui è proiettato un codice (No, 12K, Lg, 18Ogr) che altro non è che la sintesi di quello che stiamo per vedere.
Quando le luci in sala si spengono, i pannelli si schiudono, rivelando i 12 tastieristi al loro interno, che inaugurano la scaletta con la loro versione riadattata di Elegia. L’intera serata si rivelerà essere un percorso a fasi alterne nell’intera trentennale discografia della band, con arrangiamenti pensati ad hoc per l’imponente apparato elettronico. Gillick compone un mosaico di luci, proiezioni e movimenti dei pannelli che reagiscono alla musica, con le silhouette dei 12 che si stagliano alle spalle del palco e che spezzano la luce dei fari dietro di loro. Visivamente, tutto ciò mi ha portato alla mente il video del brano Crystal, grande assente della serata insieme a Blue Monday, canzone che ancora oggi detiene il primato di vinile da 12 pollici più venduto della storia.
Ogni album della band trova una sua collocazione all’interno dello spettacolo, dalla citata Elegia e Times Change rivista in chiave strumentale, ad aprire l’encore, eseguite dal solo schieramento di synth diretti da Joe Duddel, con repentini salti avanti ed indietro nel tempo che rincorrono una sorta di climax che viene toccato più o meno a metà, quando Shellshock fa scoppiare il pubblico. Come un motore diesel, ci si scalda con Who’s Joe e Dream Attack, finché non si affaccia un dovuto tributo ai Joy Division con Disorder, che con questo arrangiamento corale prende un gusto diverso, più danzerino. I vertici di questa ideale retta ascendente si toccano con Bizarre Love Triangle e Vanishing Point, mentre il dancefloor continua a scaldarsi e le 12 figure nere danzano ognuna con il proprio stile mentre i pannelli si aprono e chiudono rivelando ora questo, ora quello, e accompagnando le movenze meno agili di un Bernard Sumner un po’ provato dall’età, con una voce a tratti affaticata.
L’encore è affidato a Your Silent Face tratto dal loro lavoro forse più famoso, Power, Corruption and Lies, ed un ultimo omaggio ad Ian Curtis con Decades. La scelta di chiudere dopo soli tre brani, di cui tra l’altro solo due suonati da tutti i musicisti, divide il pubblico. Chi l’ha trovata azzeccata e non banale, era in netta minoranza rispetto alla stragrande maggioranza di quelli che per svariati minuti, nonostante le luci ormai riaccese, sono rimasti sotto palco ad aspettare una seconda uscita che non ci sarà mai, una Blue Monday o perché no, una Love Will Tear Us Apart rimaste inascoltate: un’ottima torta alla quale è mancata la fatidica ciliegina.
A qualche ora di distanza la sensazione post-live rimane comunque di pienezza: fatta pace con la consapevolezza che sono mancate grandi hit, ci si porta addosso il ricordo di una serata a cui è valsa la pena partecipare per molteplici ragioni. Lo show realizzato in collaborazione con Gillick, al suo debutto italiano, è una vera chicca, un continuo stimolo sensoriale che arricchisce i brani a livello sia visivo che sonoro. Come dicevo, i New Order non sono animali da palco e poterli vedere dal vivo è un’occasione. Nonostante gli anni ci siano, apprezzo che non vengano nascosti da atteggiamenti da rockstar consumate, ma che al contrario si presentino con l’umiltà di un gruppo di persone artisticamente legate da ormai più di 30 anni che si propone con la propria umana “semplicità”.
Fotografie di Alessia Naccarato