Il 24 Settembre del 1991 venne fuori la ruggine chiaroveggente di Nevermind dei Nirvana. Qui facciamo un tuffo nel passato e vi raccontiamo le 12 tracce dell’album – senza dimenticare la ghost track. Tredici voci diverse per ricordare il disco con cui Kurt Cobain e compagni ci hanno insegnato la terribile forza della gentilezza del non importa.
Smells Like Teen Spirit
Seppino Di Trana
Fu quando avevo 13 anni e un Discman azzurro fiammante che portavo giusto alle gite di classe, ma finivo per fargli prender polvere. Il pendolo tra boyband ed hitmania dance imperante nella mia classe non mi aveva mai convinto. Una breve parentesi rap lo rivitalizzò, ma niente. “La musica non fa per me, preferisco la pallacanestro…”. Poi il liceo. Lì le nuove tensioni rovesciarono i modi di vedere le cose. Le tag sui muri erano da ragazzini, la chitarra elettrica era fichissima. Stop. Ed uno di quelli con una chitarra elettrica tra le più “fiche”, una Ibanez (poi scoprii che non era così) un giorno a ricreazione parlava animosamente di questa canzone che aveva imparato a suonare col maestro. Qualcosa …teen spirit. Dei Nirvana.
I Nirvanaaaa? Ma non erano quelli bollati dai miei cugini grandi come produttori di rumore? Però lui ha una Ibanez, qualcosa dovrà pur capirne. La cosa passò in secondo piano sotto chissà quale ondata ormonale pre-puberale. Poi un pomeriggio in cui ero solo a casa, scazzato come solo un tredicenne sa essere, facendo zapping arrivai su Rock TV mentre finiva un video.
Buio.
Un campo da basket a tinte fosche, majorette scazzate, una chitarra che non fa virtuosismi, solo quattro accordi che però assieme ci stanno benissimo. Un tizio capellone che comincia piano poi urla rabbioso. Gente che salta e non sembra proprio divertirsi, sembra più sfogarsi. Così iniziai a saltare anch’io (finendo ripetute volte contro un comò in soggiorno). Poi il telefono “Pronto, Michele? Sì i compiti li ho finiti. Ah tu devi andare a lezione di chitarra (poser!)? Senti hai presente quel pezzo dei Nirvana che sapevi suonare? Sai su che disco è? Come? Uno con un bambino che nuota nudo dietro una banconota? Il titolo non lo ricordi? No, vabbè, ci vediamo domani a scuola”.
Entro la settimana comperai Nevermind.
Entro l’anno iniziai a suonare la chitarra e mi feci crescere i capelli.
In Bloom
Mattia Fumarola
Nei primi tempi in cui ho iniziato ad avvicinarmi al rock, vale a dire dai 14 ai 16 anni, non ero un grande amante delle sfumature più dure ed estreme del genere (quindi Metal, Grunge e Punk più pesante). In quelli anni nelle mie playlist c’erano Coldplay (almeno per il 70%), Gorillaz, Maroon 5, Green Day e giusto qualcosa di Linkin Park e Red Hot Chili Peppers. Verso i 17 anni, deluso da Mylo Xyloto, capisco che continuare a sfondarsi le orecchie a vita solo con la voce di Chris Martin non sarebbe stato molto entusiasmante e decido di spostarmi su Indie Rock e Britpop (soprattutto grazie Oasis, Radiohead, Blur, The Strokes e Arctic Monkeys) senza però ancora avvicinarmi a grunge e affini.
Una sera però, mentre faccio zapping su Sky tra i canali musicali, decido di ascoltare le hits di Rock Tv e tra queste esce un pezzo dei Nirvana chiamato In Bloom: il brano non mi sembra nulla di estremamente forte, ha un bel giro di basso che va di pari passo con la chitarra, una batteria semplice e la voce di Kurt Cobain che sale solo leggermente nel ritornello senza arrivare ad urla esagerate. Dopo quella sera, mi viene per la prima volta la curiosità di conoscere meglio i Nirvana, scoprendo che in realtà Cobain non era solo il poeta maledetto ribelle che immaginavo, ma soprattutto un uomo estremamente sensibile in una costante e sofferta ricerca di tranquillità nella sua vita offuscata dai riflettori. Ma aldilà dei Nirvana, dopo l’ascolto di questo pezzo probabilmente è cambiato il mio parere sull’hard rock americano in generale, e forse proprio grazie a questa rivalutazione ho cominciato ad ascoltare band come Queens of The Stone Age, Foo Fighters, Pearl Jam e Sonic Youth. Gli Alice in Chains no, quelli proprio non mi scendono.
Come as You Are
Fabio Mastroserio
Era un giro inconfondibile, prima la chitarra di Kurt poi le corde allentate del basso di Krist Novoselic, quell’accordatura un mezzo tono sotto, quel suono cupo e liquido come l’acqua sulla copertina del disco, quella del video in cui galleggia una pistola a canna lunga, in heavy rotation negli anni d’oro di Mtv. Il singolo uscì nel marzo del 1992, qui in Italia c’era ancora soltanto Videomusic. Mtv, quella dei suoi anni d’oro, sarebbe arrivata solo dopo la morte di Cobain, nel 1995 con una specie di programmazione carbonara che trasmetteva su Tele+3 una decina di ore al giorno di MTV Networks Europe. La morte di Cobain arrivò una mattina, dietro a un banco di inutili scuole medie, durante la lettura de Il Mattino del sabato. Non ricordo nemmeno cosa stessero leggendo gli altri ad alta voce, io venni rapito da quella foto in bianco a nero del ragazzo biondo con una t-shirt a righe e gli occhi stralunati. Eravamo, senza saperlo, nel guado di un profondo cambiamento, tra compilation su musicassette e notizie che arrivavano dai più grandi, da chi era stato a Roma un paio di mesi prima, la notte che Kurt aveva già provato a farla finita. La storia di Nevermind s’intreccia a questi due mondi, gli anni ‘80 che finivano con tutto il loro carico di splendore di plastica e paillettes e gli anni ‘90 che si aprivano tra camicie di flanella e festival nel fango ripresi dalle tv. Come as you are divenne presenza fissa di ogni classifica, di ogni speciale di là a venire e il viso bellissimo di Kurt, nell’Unplugged a New York, il sigillo tremendo di un decennio che conosceva la sua celebrity death quasi ancor prima di nascere. «And I swear that I don’t have a gun» era un giuramento falso e lo avremmo scoperto nel peggiore dei modi. Ma quel colpo di fucile fu anche l’inizio di un culto che si attendeva da tempo, anche i novanta avevano il loro martire.
Breed
Luca Ciaramella
Se me lo chiedete ora va a finire che vi rispondo che mi fanno schifo, che non riesco più ad ascoltarli.
Se invece me l’aveste chiesto sei anni fa o giù di lì, durante la mia eterna adolescenza, sarebbe andata a finire che vi avrei risposto che erano il mio gruppo preferito, il gruppo del secolo, altro che Clash, Velvet Underground e Stooges.
Se oggi, 23 settembre 2016, a venticinque anni esatti dall’uscita di Nevermind mi chiedete se mi piacciono i Nirvana va a finire che vi rispondo che li ho ascoltati talmente tanto durante la mia eterna adolescenza che ora non riesco ad ascoltare che tre canzoni. Tre. Le stesse identiche tre canzoni che sei anni fa o giù di lì non riuscivo ad ascoltare senza che mi assalisse un profondo senso di noia. Ironia della sorte.
Delle altre due non mi va di parlare, vi basti sapere che ora l’unica canzone dei Nirvana che riesco a godermi come se avessi 16 anni o giù di lì è Breed.
Breed. Tre minuti e tre secondi. Incuneata tra due dei singoli più di successo del terzetto statunitense (Come As You Are e Lithium, per dire).
Non so davvero perché, ma non riuscivo ad ascoltarla per più di due secondi senza provare il bisogno impellente di riascoltare la traccia precedente o di cambiare per la successiva.
Non so perché lo facessi, forse perché non capivo un cazzo di musica.
D’altronde, se me l’aveste chiesto sei anni fa o giù di lì, vi avrei risposto che il mio gruppo preferito erano i Nirvana.
Lithium
Matteo Dalla Pietra
Quell’estate sembrava essere un po’ meno peggio, anche se, come per le precedenti, continuavo a ripetermi che sarebbe stata l’ultima. La storia del viaggio in camper con i miei, cosí grigi ed ordinari undici mesi all’anno, che si atteggiavano ad hippy fuori stagione era ai miei occhi un’intollerabile farsa clownesca. Ma in quel campeggio c’era Lei, capelli blu, che stavo per rivedere dopo un autunno-inverno-primavera, un dolce a strati di attesa e fantasie adolescenziali. Le avrei detto di quanto ero arrabbiato, e di quanto volevo partire e andarmene, e dei Nirvana che ascoltavo senza darmi tregua e che urlavano cosí forte e bene, e Lei avrebbe adorato le mie All-Star con tutte quelle scritte fatte col bianchetto e magari ne avrebbe aggiunta una anche..
“Che ascolti?” una mano che mi strappava le cuffie del walkman interruppe il flusso riportandomi di colpo alla realtà. Chino sui miei pensieri, non mi ero accorto di nulla ed ora Lei era lí, davanti a me, con la mia musica nelle sue orecchie. Ma i capelli erano lunghi e biondi, il blu era scomparso.
“Ma che è ‘sta merda? Dai ti aspetto alla disco del campeggio, con gli altri“. Rapida, si era già smaterializzata, non lasciandomi il tempo di elaborare una qualunque risposta, neanche insensata. Con calma, mi alzai dal muretto. No, quell’estate non sarebbe stata meno peggio delle altre. Schiacciai play, tornando ad immergermi in ciò che era stato interrotto: I’m so happy, ‘cause today..
Polly
Giacomo Costa
Polly è la sesta traccia di Nevermind e giunge dopo quattro tra le più famose e acclamate canzoni dei Nirvana: Smells Like Teen Spirit, In Bloom, Come As You Are e Lithium. All’intero pacchetto porta un calo del ritmo e temporanea rinuncia alla chitarra elettrica a favore di una acustica. Composta in chiave di Mi minore (E minor) e formata da 3 versi e altrettanti ritornelli. Cobain è aiutato da una seconda voce nel ritornello mentre il basso di Novoselic si sente dal secondo chorus a seguito di una breve pausa della chitarra.
“Polly wants a cracker” la rende riconoscibile sin dall’inizio. Il brano parla di una storia di stupro e torture del 1987 ai danni di una 14enne; Cobain lesse di questa storia in un giornale e prese ispirazione proprio da essa. “I think I should get off her first, I think she wants some water to put out the blow torch”. Il testo della storia fu scritto dalla prospettiva del criminale ed è proprio qua che si manifesta la forza di Kurt Cobain e dei Nirvana visto che pochi avrebbero il coraggio di affrontare un tema del genere e in particolare farlo dal punto di vista di uno stupratore seriale.
Non a caso Kurt è considerato il simbolo e la voce di una generazione e non solo.
Territorial Pissings
Eleonora Danese
A diciassette anni cantavo in un gruppo e credevo di conoscere molta più musica di qualsiasi altro mio coetaneo. Un giorno il chitarrista del suddetto gruppo mi disse di aver scritto un pezzo nuovo, così prese la Telecaster e cominciò a cantare: «When I was an alien, cultures weren’t opinions». Ascoltai tutta la canzone ed esordii con un «Anvedi oh!», prima di iniziare a chiamare gli altri dicendo che finalmente avevamo qualcosa di fico per il prossimo concerto.
Territorial Pissing è la traccia dalle sonorità più propriamente punk di Nevermind. Aperta dalla voce di Krist Novoselic che recita il ritornello di Get Together (Youngblood, 1967), venne registrata direttamente durante il mixaggio in studio dell’album, cosa che gli ha conferito l’ancor più fermo senso di cazzeggio che tanto si apprezza e che mi ha permesso, al tempo, di credere fosse l’opera definitiva del mio amico.
Drain You
Francesco Chianese
Avere vent’anni durante i ’90s e sentirli tutti nelle mani. Credo che Nevermind per molti miei coetanei abbia significato che se Cobain, Novoselic e Grohl potevano suonare un disco del genere, ci poteva riuscire chiunque. Ma Drain you era il pezzo che metteva in difficoltà: c’é quel lungo passaggio in cui all’improvviso il punk scomposto di strofa e ritornello si dilata e diventa aereo, rarefatto, e poi all’improvviso si fa fragoroso, un suono che, dopo opportune frequentazioni successive, avrei imparato a definire noise. Anche la band in cui suonavo nell’ultimo spicchio di Novanta era un trio. I nostri nomi da bravi ragazzi di periferia suonavano probabilmente dalle nostre parti come quelli di Kurt o Dave alle orecchie dei giovani americani, gridavamo il nostro disagio in locali di merda dell’hinterland napoletano o nei centri sociali come loro negli States, e ci innamorammo di Drain You incondizionatamente. Ne eseguivamo con trasporto una cover al termine di ogni turno di prove. Riproducevamo i feedbacks incontrollabili di chitarra e basso e i tamburi che incalzavano e si spegnevano, sudavamo tantissimo, e uscivamo dalla sala sordi e felici, appagati come solo quel pezzo sapeva appagarci. Ma poi sul palco, quando arrivava il momento delle cover, suonavamo Smells like teen spirit, come tutte le bands dei nostri amici. Ci mancava il coraggio: quel lungo passaggio che sapeva sempre di improvvisato ci rendeva pavidi, credevamo di risultare incerti proprio nei momenti in cui avremmo dovuto esagerare.
I Nirvana invece, nonostante Drain You non uscisse mai uguale due volte, i feedbacks partivano tutti sbagliati, andassero fuori tempo spesso e volentieri, quel pezzo lo eseguivano senza timori. Non c’é un live registrato in cui Drain you suoni come doveva suonare, ma loro la facevano ogni benedetta volta. Ecco in cosa tutti noialtri abbiamo sottovalutato questi tre goffi ventenni di Seattle, e cosa li rendeva speciali. Ecco il motivo per cui loro sono sopravvissuti alla storia, e tutti gli altri gruppi di noi pavidi no. Ed ecco perché Drain You é stato il pezzo che mi ha fatto amare i Nirvana, che in precedenza avevo sempre detestato.
Lounge Act
Alessia Melchiorre
“Ogni canzone su questo disco [In Utero] non è su di te. No, non sono il tuo ragazzo. No, non scrivo canzoni su di te, eccetto ‘Lounge Act’, che non suono, tranne quando mia moglie non è in giro.”
Se non fosse stato per Tobi Vail, probabilmente Nevermind non sarebbe esistito o comunque non sarebbe stato lo stesso disco che ha cambiato per sempre la storia della musica 25 anni fa. Se Kurt Cobain avesse potuto, non avrebbe scelto Smells like Teen Spirit come canzone-manifesto della sua opera più importante. Lounge Act, invece, è l’istantanea più nitida dello stato d’animo del suo autore: la canzone che meglio ri-suona il leitmotiv – presente ma solo accennato nelle altre canzoni – di quella stagione amorosa turbolenta.
Per chi non lo sapesse, Tobi Vail è la Beatrice dantesca di Nevermind: la donna-angelo da cui il Vate del grunge trae ispirazione per scrivere molte delle liriche dell’album. Per intenderci: Teen Spirit è il profumo che lei indossava e, per Kurt, “odorare di spirito adolescenziale” era un modo mezzo romantico (si sentiva innamorato come un adolescente) per dire che ci andava a letto. Batterista delle Bikini Kill – uno dei tanti gruppi della scena punk/riot grrrl di Olympia dei primi Novanta – Tobi Vail passerà invece negli annali della storia della musica come colei che ha spezzato il cuore del leader dei Nirvana.
La loro relazione è descritta in un ritmo principalmente scandito dalla chitarra elettrica e introdotto dal basso lounge di Novoselic, da cui il titolo. Dal ritornello, si spiegano tre cose. Primo, che Cobain aveva un rapporto quasi di dipendenza anche verso la sua amata:
And I’ve got this friend, you see/Who makes me feel/And I wanted more than I could steal
Secondo, che lo scudo tatuato sul braccio, altro non è che una prova d’amore (si tratta infatti del simbolo della K Records, la casa discografica di riferimento per le band indie di Olympia, tra cui anche le Bikini Kill):
I’ll arrest myself/I’ll wear a shield
E infine, che lui portava addosso ancora l’odore di lei, il solito spirito adolescenziale:
I’ll go out of my way to prove I still
Smell her on you.
Ancora una volta abbiamo dimostrato che l’arte, dalla letteratura alla musica, non nasce che dalla sofferenza, dallo struggimento e dalla passione. Cosa sarebbe successo al mondo della musica se Tobi Vail non avesse mai spezzato il cuore di Kurt Cobain? Non avremmo potuto godere di un capolavoro inter-generazionale. (Oh well, whatever) Nevermind.
Stay Away
Michele Nenna
Novembre è uno di quei mesi che ho imparato ad amare con il passare degli anni. Nel 2009 non ero ancora consapevole di questo amore incondizionato per l’inverno. Più che altro non ci davo peso. A maggio inizi a mettere i pantaloni corti e a fine settembre rimetterai quelli lunghi, fine della storia.
Era novembre quando un amico batterista mi invitò a trascorrere il pomeriggio nella sala prove del suo nuovo gruppo. Più che sala prove era un container dell’Aia; si trovava in uno di quei parcheggi per camion appena fuori il paese. I container erano disposti lungo tutto il perimetro dello spazio. Gli affitti fruttavano un sacco di soldi al proprietario.
Una volta dentro avvertii subito il solito odore di mozziconi spenti, fumo di sigarette e umidità. Di fianco alla batteria c’era un materasso raggomitolato con un lungo cavo elettrico. Lì sopra si scopavano le ragazze quando non c’erano prove da eseguire.
Il trio era formato da chitarra più voce, basso e batteria. Avevano messo su una cover band dei Nirvana. Si chiamavano Aneurysm.
Mi sedetti in un angolo e accesi una sigaretta. I primi dieci minuti furono composti di esclusive note sparate a casaccio, dopodiché una timida Stay Away iniziò a prendere forma. La prima strofa era quasi incomprensibile per via della qualità pessima del microfono, a discapito del ritornello: urlava e basta.
Non volendo fui accolto dal mio amico nel suo nuovo box, dal resto dei membri della sua nuova cover band, in un’atmosfera davvero seattleana. Fuori pioveva, e quando provavi ad aprire il portellone d’ingresso, il fumo usciva così lento da rimanere quasi intrappolato tra quei lamenti puntualmente strozzati da una voce che non riusciva a tenere il passo di Cobain e le grosse gocce d’acqua che scendevano. Stay Away urlava il chitarrista, Stay Away urlava la mia mente cercando di raccogliere, in un modo o nell’altro, la voce di Kurt.
Sedermi di fianco alla batteria, nello spazio ristretto di un container, non fu una grande trovata. Rimasi lì ad ascoltare tutta la scaletta, comprese le varie storpiature ai brani che seguivano quello di apertura. Uscii da quel posto con le orecchie ormai andate, e con un ritornello che ormai aggrediva la mia mente con una forza emotiva talmente alta da lasciarmi catturare da un grido – quello vero, stavolta – che non poteva essere più disperato.
On a Plain
Gio Taverni
“Love myself / Better than you / I know it’s wrong / So what should I do?“, ho sempre pensato che il cuore del messaggio generazionale di Kurt Cobain fosse in questa frase, rivoluzionaria quanto poteva esserlo una massima del cristianesimo. Se Cristo incoraggiava ad amare il prossimo come se stessi – presupposto morale di un’intera stagione devota al peace and love e a Woodstock – Kurt ci sbatteva in faccia l’assoluta verità del nostro fanatico individualismo. Nei Novanta eravamo abbastanza pronti ad accogliere il messaggio, e trasformarlo in qualcosa di positivo.
On A Plain è stata la canzone che ha avvicinato “la mia volontà intellettuale, spirituale e umoristica” ai Nirvana, anche se sto parlando della versione unplugged a MTV – primo loro album ad essermi capitato tra le mani e le orecchie per grazia occulta. Da lì a Nevermind il passo sarebbe stato brevissimo. Stiamo parlando di uno di quegli album che potrebbe stimolare la messa in scena di una sorta di rituale immaginario durante l’ascolto, un’evocazione che dai Novanta a oggi (anni ’10 del Duemila) non riesce ancora a stancarci.
Con pezzi come On A Plain, e la revolverata a cervello e cuore che è Nevermind, Cobain e soci riescono a donare un’aura magnetica e un valore positivo alla diversità in ogni sua declinazione. Non ci sono più perdenti, il mondo è un universo di variazioni, niente è giusto o sbagliato – “ha solamente un altro ritmo“, direbbe un poeta congolese. E il ritmo di Nevermind è quello inconfondibile di chitarra, basso e batteria che si incastrano tra rumori e melodie per raccontarci una storia che rese epocale un’intera generazione.
Potevamo dire tutto, in maniera diretta e sincera. Le cazzate restavano sul portone di casa. I jeans si stracciavano da soli per l’usura del tempo, alle porte della moda di venderli coi buchi. Per questo siamo ancora qui a parlarne, c’è un mondo e una rivoluzione in quel semplice non importa.
Something in the Way
Monica Bogliolo
Per chi, come me, é nato ad inizio anni 80, la coltellata al cuore di Nevermind é arrivata a qualche anno dalla sua pubblicazione, ma con la stessa devastante intensità. Conoscere la loro discografia era un gesto obbligatorio per chiunque si definisse appartenente a quello che in quegli anni era il mondo degli “alternativi”; per qualcuno era semplice conoscenza enciclopedica, ma per la maggior parte di noi sarebbe stato un viaggio senza ritorno. Per me é stato un qualche giorno di autunno, tra il 1996 e il 1998, quando Kurt ormai aveva già compiuto IL GESTO. Ascoltare quelle parole, quella rabbia incontrollata ed incontrollabile, ben conscia di quello che successe quel tragico 8 Aprile, non faceva che amplificare ogni gamma di sentimenti che quell’album trasmetteva, che diventavano miei nell’istante esatto in cui premevo play. Something in the way é il pezzo a cui penso istintivamente quando qualcuno cita Nevermind, quella nenia, quella apparente quiete dopo la tempesta. Un pezzo che Kurt ha composto memore dei giorni passati sotto un ponte, cacciato di casa, in preda al più inimmaginabile sconforto. Da quel momento, per tutti questi anni, nella mia mente, la desolazione umana del vivere senza riuscire a visualizzare un futuro potrà essere descritta solo tramite quelle note: uno stato di calma apparente che cela la più torbida disperazione, quella sensazione di quando ormai sei troppo stanco e spossato anche per avere dei sentimenti. Se Nevermind é storicamente l’inno di rabbia di una generazione, Something in the way ne é la dichiarazione di bandiera bianca.
Endless, Nameless
Nicola Bartolini
Nell’ormai lontano 1991 il sottoscritto aveva appena 6 anni. Di certo i miei gusti musicali non erano formati adeguatamente, e tuttalpiù mi esaltavo per le sigle dei cartoni animati cantate da Cristina d’Avena.
È però probabile, avendo una mamma giovane e con degli ottimi gusti in fatto di musica, che abbia ascoltato anche a quella tenera età l’album più celebre, la cui copertina è ormai entrata nell’immaginario collettivo, di quella che io considero la più grande band grunge di sempre.
Sono affezionato ai Nirvana per vari motivi: uno dei tanti, è che se mi dovessero chiedere qual è stato il primo videoclip che io abbia mai visto, mi verrebbe subito in mente Smells like a teen spirit, quando in Italia l’unica emittente (che io sappia) che trasmetteva video musicali era TMC2. All’epoca probabilmente non avevo ancora compiuto 10 anni. Capisco solo ora che quello che provavo per le cheerleader anarchiche tatuate era amore.
L’anno scorso ho avuto la fortuna di visitare Seattle, città che ha dato i natali non solo ai Nirvana, ma a tutto il genere grunge e alle sue band più importanti.
Una città bellissima, forse la mia preferita degli Stati Uniti: una città in cui la nebbia e la pioggia la fanno da padroni tutto l’anno.
Nel mio breve periodo di permanenza nella città ho visitato il EMP Museum (acronimo che sta per Experience Music Project and Science Fiction Museum and Hall of Fame, di certo il “museo” più divertente che abbia mai visitato e che consiglio a tutti) che ospita una sezione permanente con qualsiasi tipo di ricordo legato ai Nirvana, tra cui dei filmati d’epoca davvero interessanti. Proprio in quei giorni, fra l’altro, si festeggiava l’uscita di Montage of Heck, il film-documentario sulla vita di Kurt Cobain.
La canzone che mi è capitata è Endless, Nameless, hidden track dell’album. Non è una canzone a cui sono emotivamente legato, come lo sono per Lithium, ma è una traccia atipica per il sound di Nevermind, molto più “rock” rispetto alle altre.
In altre parole è un outsider, come mi sono sempre sentito io nella mia vita.
Quindi, se ora dovessi scegliere una canzone di Nevermind che mi possa rappresentare, bè, sceglierei proprio questa.