Certe storie quando si raccontano diventano leggenda e alimentano il mito, ma quando succedono giorno per giorno si vivono nel sogno e nella speranza di diventare leggenda. I Beatles erano convinti da sempre di diventare più grandi di Elvis, e ci sono riusciti. I Nirvana volevano fare un disco pieno di belle canzoni senza rinunciare al rock, quello rumoroso, quello che sa di chitarre in distorsione e di piatti e cassa che pestano. Kurt Cobain e Krist Novoselic ci provano con una piccola etichetta indipendente la Sub Pop. Il loro primo disco, Bleach, scuote l’underground di Seattle, che a inizio anni Novanta ha una scena musicale che segnerà il decennio, e non solo, ma non è ancora niente rispetto a quello che sta per succedere. Alla batteria arriva David Grohl, che unisce i suoi suoni a quelli del basso di Novoselic e alla chitarra e alla voce di Cobain. Prende forma la line up decisiva della band e comincia a materializzarsi il nuovo disco Nevermind.
Geffen, il discografico che in passato ha avuto David Crosby e Joni Mitchell, vuole i tre ragazzi con la sua major. È una mossa a sorpresa, una scommessa non supportata da particolari premesse. L’obiettivo già ambizioso del disco per l’etichetta è di vendere 250 mila copie, così da coprire i costi. Le previsioni sono del tutto errate, Nevermind supera abbondantemente al momento i trenta milioni di copie vendute. I Nirvana diventano gli alfieri del “grunge”, Seattle la capitale della musica rock di quegli anni, e la foto di copertina del disco, che ritrae un neonato in acqua che insegue una banconota da un dollaro agganciata a un amo, sta un po’ alla storia del formato cd come quella di Sgt. Pepper dei Beatles al vinile. Fatti i dovuti raffronti, ovviamente.
Nevermind ha il suono di una produzione indipendente in quanto a impatto e finalità. Mantiene l’atmosfera dell’underground e l’anima del rock più duro. Cobain ha la voce giusta per un progetto che è destinato ad entrare nella grande storia del rock anche per il suo epilogo, infatti non ancora trentenne Kurt si suicida, aggiungendo l’ulteriore ingrediente di eternità a uno degli ultimi sussulti del rock contemporaneo. Nevermind somiglia a una raccolta di successi più che a un singolo album. C’è tutto, ghost track inclusa. Le radio si innamoreranno immediatamente di Smells Like Teen Spirit, i loro videoclip impazzano sui canali musicali. Il disco è anche un pozzo senza fondo in quanto a singoli da lanciare, Come As You Are, Lithium, Polly, insomma ce n’è per tutti. Sono passati trent’anni, una generazione è cresciuta con quella musica, ha imparato a non allontanarsi troppo dagli amplificatori, a mischiare volume e testo, a vivere i live in locali e cantine, pensando che tutti sono passati di lì, tramandando lo spirito e il rumore del rock indipendente fatto di passione, sudore e sogni. Il successo dei Nirvana, come quello dei Beatles a inizio anni Sessanta, spinse molte major a mettere sotto contratto band fatte da capelloni e vocalist dai jeans strappati. Ne beneficiarono in molti con più o meno merito. Il grunge ebbe tra alti e bassi il suo momento d’oro. Ma Nevermind, oltre le etichette, il periodo e le coincidenze, resta uno dei dischi più belli della musica rock.