C’è un’abitudine che caratterizza questi tempi, è quel vizio che tende a farci rifiutare alcune delle cose che non abbiamo il tempo di comprendere. È il gioco che ci ha fatto chiudere nei sotterranei che abbiamo dentro piuttosto di accorgerci di come tutto sia cambiato o non combaci esattamente all’idea di mondo che abbiamo sempre preteso. Dovremmo essere più ottimisti, ogni tanto. La possibilità di sbagliarci, del resto, è forse l’unica cosa a esserci rimasta come esseri umani. Il risentimento ci rende più deboli, meno disposti a imporre ciò per cui, invece, vale la pena combattere. Lasciamo posto all’insoddisfazione, odiando facilmente chi riesce a legare il proprio linguaggio alle storie degli altri meglio di noi. Ma odiare non porta a nulla, pretendete di più, ma fate in modo che accada, voi stessi, spendetevi per qualcosa che abbia un senso, quello che avanza sono chiacchiere a un tavolo del bar. Questo discorso, fin troppo serio, riguarda direttamente e indirettamente anche Calcutta. Lo fa perché nel gioco del pop italiano, bene o male, tutto si dirige verso di lui da quando Mainstream è arrivato a tracciare la linea – o il punto di arrivo – , insieme a Thegiornalisti e I Cani, di ciò che un certo numero di artisti, dentro e fuori quello che era il circuito indipendente, oggi si sente di esprimere. In questo modo Calcutta è finito per assumere la figura di un antieroe parafulmini, un inconsapevole donchisciotte che è passato apparentemente senza macchia all’arrivo della notorietà, finendo per accostarla senza lasciarsi immergere com ple ta mente o schivarla del tutto, come accaduto con Niccolò Contessa. Calcutta è rimasto quello più umano, mantenendo un livello di genuinità stabile anche all’interno di Evergreen, campionario sulla nuova tradizione autoriale del nostro paese, fra citazioni, esperienze personali e una matrice scrittorica che conferma – arrendetevi – le sue potenzialità come autore. La capacità che possiede di raccontare in maniera semplice e lineare piccole storie è, probabilmente, ciò che gli permette di renderle qualcosa di altro, micro leggende di quei tempi andati che creano nuovi simboli venati di nostalgia. È ciò che permette al Bisonte di Trieste di essere la metafora di una moderna resilienza e riprodurre la forma canzone italiana di un mondo antico che ci manca proprio perché non c’è più. La romantica storia delle Marlboro di Dario Hubner, la certezza di chi andava sempre a segno, almeno in un campo della vita (Dovrei fare come Dario Hubner | E non lasciarti a casa mai a consumare le unghie), è una riflessione che coinvolge Calcutta stesso, oltre a diventare un necessario riferimento con cui guardare i suoi testi e il loro significato.
Il problema generale che si presenta quando si parla di Calcutta è dovuto, principalmente, al fatto che lo si valuti con termini confusi. Si va a ricercare tutto quello che c’è di sbagliato rispetto a quello che, invece, c’è di buono. Lo si giudica con termini che appartengono al mondo indipendente in cui, invece, non rientra più. Lo stile e il suono di Calcutta hanno già da tempo sfondato la porta delle minors. Si sono proiettati su un mercato diverso e più trasversale, imponendosi proprio come una variabile sana – e quindi non svendendosi – a ciò che da sempre vive sulla ripetizione dell’identico. Non è un caso che le richieste di collaborazione arrivino più dal mondo delle majors rispetto a quello delle origini e che questo comporti critiche sprezzanti, come accaduto con Raina e gli altri, rei di aver attraversato la zona d’ombra. Tutti vogliono un pezzo di Calcutta, proprio perché nessuno è in grado di replicarlo con la stessa consistenza, tanto da renderlo materia resistente, il limite fra il folle autofagocitamento del pop italiano, che dalla Pausini finisce in Cremonini, e la trap generation che, da componente antimercato, è finita con l’essere normalizzata in uno dei numerosi generi di tiro. La pretesa di dimostrare qualcosa, di avere lo sguardo serio o la voce troncata dal dolore, non appartengono allo storytelling di Evergreen e non c’è ragione per cui dovrebbe essere così. Ci troviamo davanti alla rappresentazione di una canzone – a volte solo apparentemente – spensierata, con tratti in grado di creare un’alternativa serena alll’epoca di memes e, poca, autoironia che viviamo ogni giorno, dove la necessità di definire e destrutturare, a poco a poco ci ha fatto smettere di credere alle risposte semplici e non a quelle comode.
Dal punto di vista musicale Evergreen celebra il definitivo approdo alle melodie pop del contemporaneo, che sfruttano i semitoni e si dirigono verso i tempi lunghi per accompagnare i tanti cori che lo caratterizzano. Una costante che si intravede nel triangolo Paracetamolo – Orgasmo – Pesto, i brani più immediati e forti dal punto di vista sonoro, più fedeli a ciò che aveva reso Mainstream il disco che più sarebbe riuscito a raccontarci sotto alcuni punti di vista. L’immediatezza, il continuo scorrere delle cose finisce per cristallizzare le immagini di brillantina in Kiwi e Briciole, le ballate che configurano l’album di Calcutta all’interno di un certo tipo di confini che lui stesso non è interessato a segnare. Una riproduzione ironica del jet set, quella di Rai, dai tratti picareschi e volontariamente autocelebrativi per quel gregge di pecore che, nella copertina dell’album, si disinteressa alla sua figura e che, forse, mostra anche un certo disinteresse verso ciò che può pensare (Oh mondo cane | Tu fatti gli affari tuoi, ad esempio).
Si tratta di sonorità così conosciute, in cui le pretese non superano la necessità di comunicare e che le tolgono, automaticamente, dal circo del giudizio per questa loro amichevole ostinazione a fissarsi nelle orecchie, insistendo su qualche punto debole della nostra coscienza. Il pianoforte è rimasto al suo posto, come fondamento imprescindibile, mentre la chitarra scompare quasi del tutto imponendosi in Saliva, l’unica canzone assimilabile all’origine acustica e la preferenza per il testo scarno e diretto. Tutto in Evergreen sembra essere studiato in direzione di in un climax l’esplosione dei ritornelli a squarciagola che, alla rudezza e malinconica verve di Graziani accostano la leggiadria di Battisti, vero faro imprescindibile nella scrittura e nella riproduzione di quelle immagini rarefatte, su cui sembra sempre si sia già detto tutto ma, in fondo, produttrici ancora di nuovi significanti.
Evergreen potrebbe essere l’ennesimo disco sui casini delle storie d’amore quando si è troppo sensibili, ma lo è in una versione paperoghiana, certo ironica e non scontata, su come finiscono. Gli oggetti e le immagini del quotidiano continuano a essere la materia buona da cui estrarre una particolare unicità a seconda del contesto, che siano strumentali (Lo sai che la Tachipirina 500 | se ne prendi due | diventa mille) o portatori di nuove similitudini, come accade nel caso del già citato Hubner. Passaggi utili, fin troppo semplici, per non costargli delle critiche ma che, poi, a guardarci bene, tutti se ne portano via un pezzo. Calcutta suona, e canta, rimanendo una delle cose ancora sane a reggere questo fragile castello di carte in equilibrio, lo fa con la consapevolezza di chi, riconoscendo i punti deboli, ha trovato anche quelli di forza.