La Zona non simboleggia niente, non più di qualsiasi altra cosa nei miei film: la Zona è la zona, è la vita, e mentre la attraversa un uomo può crollare o può farcela.
Andrej Arsen’evič Tarkovskij
Cos’è questo strano libro che abbiamo tra le mani? Che cosa vuole dirci il titolo “Zona” e quel sottotitolo così in evidenza “Un libro su un film su un viaggio verso una stanza”? Per spiegarlo siamo costretti a fare un passo indietro in un’epoca molto diversa da quella attuale, in un tempo soprattutto differente.
È il 1979, gli anni settanta volgono al termine e nelle sale dell’Unione Sovietica esce Stalker, quinto lungometraggio di quello che era e rimane tuttora uno dei più grandi cineasti della storia della settima arte: Andrej Tarkovskij. Qualche anno più tardi Geoff Dyer è un giovane poco più che ventenne che ama il cinema e non sa ancora che quel film è destinato a diventare l’oggetto misterioso della sua personale ossessione. A distanza di trent’anni, nel 2012, quell’ossessione è diventata un libro, Zona, dal nome del centro nevralgico dell’intera pellicola: due personaggi, il Professore e lo Scrittore, si affidano alle mani di uno Stalker – è il nome dato ai soli uomini che conoscono la strada per arrivare alla meta – per visitare la Zona, luogo misterioso e proibito al centro del quale esiste una stanza che – si dice – sia in grado di realizzare il desiderio più recondito e autentico di chi ha il coraggio di entrarci.
Il Saggiatore ha pubblicato poche settimane fa per la prima volta il libro in italiano nella traduzione di Katia Bagnoli in un’edizione curata nei minimi dettagli. Ma cos’è esattamente Zona? Prova a rispondere lo stesso Dyer: Che razza di scrittore sono io, ridotto a scrivere il riassunto di un film? […] In mia difesa dovrei dire che Stalker è un film che si può riassumere più o meno in due frasi. […]Se riassumere significa ridurre a una sintesi, allora il mio è l’opposto di un riassunto: è un’amplificazione, un’espansione. Qual è lo scopo di un simile esercizio? Lo scopo, com’è ovvio, è l’esercizio fine a se stesso. Se valga qualcosa – se sia un’analisi valida, e in quanto tale possa anche diventare un’opera d’arte a pieno titolo – è ancora poco chiaro.
E Zona è esattamente questo, un’amplificazione, un’espansione, un esercizio fine a se stesso capace, però, di condurci alla scoperta di uno dei vertici assoluti della cinematografia e nei meandri di un discorso molto più ampio che coinvolge la natura stessa del cinema, dell’arte, della critica e a poco a poco di noi stessi. Perché se è vero che Zona rappresenta per Dyer quasi un’ossessione, è vero che dalle ossessioni ci si libera soltanto riuscendo a compiere una profonda analisi su se stessi e questo libro come uno specchio – altro tema caro alla poetica Tarkovskijana – ci permette di riflettere e misurare i nostri pensieri e le nostre personali ossessioni su quelle del poliedrico autore inglese.
A differenza della citazione di Jung, presente nel libro – «le persone farebbero qualsiasi cosa, per quanto assurda, pur di evitare di incontrare la propria anima» – Zona diventa, pagina dopo pagina, il racconto del rapporto tra l’autore e la sua ossessione attraverso una scrittura che non abbandona nemmeno per un attimo i toni di una piacevole leggerezza – pur al cospetto della profondità e della sacralità che circondano l’opera e il suo autore/regista – accompagnandoci in un viaggio attraverso una miriade di note, parentesi, riferimenti ai testi e alle interviste del cineasta russo.
Si passa così da Camus – «Il lavoro di un uomo non è altro che il lento viaggio che lo porta a riscoprire tramite le deviazioni dell’arte quelle due o tre immagini semplici e grandiose davanti alle quali il suo cuore si aprì per la prima volta» – a un threesome mai concretizzato con una ragazza di Belgrado, da Roberto Calasso – «siamo sulla soglia del mondo ulteriore che si sospetta implicito in questo mondo» – all’ambient music di William Basinski e degli Stars of the Lid, dalla possibile scoperta di un’allusione a Shelter from the storm di Bob Dylan a Rumore Bianco di DeLillo fino a Robert Bresson (insieme a Bergman l’unica persona al cui parare era interessato Tarkovskij) – «Girare un film significa uscire per andare incontro a qualcosa. In ciò che è inaspettato non c’è niente che tu segretamente non abbia atteso».
Al centro di tutto c’è però, davvero scena per scena, il capolavoro con il quale Tarkovskij, secondo Wim Wenders ha portato il cinema in un «territorio completamente nuovo dove ogni tuo passo potrebbe essere l’ultimo».
In una digressione continua che quasi altera la percezione del racconto e dello stesso tempo di lettura, come il respiro che sembra animare le inquadrature del film – appena 142 su 160 minuti – è proprio il concetto di tempo, del rapporto che ha con la narrazione e con la percezione dello spettatore e – non da ultimo – con i ricordi del tempo passato, che diventa il filo conduttore dell’intero lavoro.
Credo che normalmente le persone vadano a cinema per il tempo, che sia per perderlo, sprecarlo o guadagnarlo.
Andrej Arsen’evič Tarkovskij
Stalker – scrive Dyer – è un viaggio in senso letterale che è anche un viaggio nello spazio cinematografico e – in tandem – nel tempo. Pur prendendo spunto da un racconto di fantascienza – com’era già avvenuto per Solaris – in realtà Tarkovskij si distacca completamente dalla matrice fantascientifica per realizzare un’opera durante la quale si sentono tremori dal futuro […] perché Tarkovskij non era soltanto un visionario, un poeta e un mistico, era anche un profeta (di un futuro che adesso giace nel passato).
Uno dei passaggi più interessanti riguarda l’estetica stessa della Zona. Questo paesaggio abbandonato, presidiato militarmente, accessibile solo e unicamente dagli Stalker, attraverso una violazione della legge, segue il paradosso dell’abbandono: ovunque sia, una situazione di abbandono agisce da calamita. Dyer cita Slavoj Žižek che sostienecome sia proprio l’isolamento la caratteristica distintiva della Zona: «A conferire l’alone di mistero è il Limite stesso, cioè che la zona venga designata come inaccessibile, proibita».
Ma è con la tragedia diČernobyl’ del 1986 che nell’opera di Tarkovskij emerge quel ruolo quasi profetico: Robert Polidori in Zones of Exclusion fotografa l’abbandono diČernobyl’ e Pryp’jat’ non solo documentando l’esistenza di un mondo che ormai assomigliava a un film girato vent’anni prima; sembra quasi che l’estetica dei fotografi – il tacito senso di quel che stavano cercando – si fosse in parte formata con Stalker, che quindi ha contribuito a generare e plasmare la realtà osservata che subentrò in seguito.
Tra un ricordo e una battuta salace che allenta la stessa tensione che dalla pellicola di celluloide sembra trasferirsi alla pagina scritta, Geoff Dyer rivela la sua ossessione senza celarne i rischi che la sottendono – Sono talmente assorto in Stalker da non vedere altro che Tarkovskij, così imbevuto della sua visione del mondo da confonderla con il mondo reale – ma allo stesso modo consegna al lettore – intatto e intoccabile – il fascino di un’esperienza cinematografica che si è quasi perduta
Come tutti i grandi registi, Tarkovskij ti immerge a tal punto nel suo mondo, che non ti passa mai per la mente – a meno che sia fatto di proposito, come per Godard alla fine di Il disprezzo – che il mondo sullo schermo cessi di esistere ai margini dello schermo. Tutti i migliori registi capovolgono l’affermazione di Coriolano secondo cui esiste un mondo altrove. No, il mondo al di là dello schermo può essere soltanto una continuazione del mondo che vediamo. A entrambi i lati e oltre, è più o meno la stessa cosa. Non siamo nemmeno in un cinema; siamo in un mondo. O, meglio, non c’è nient’altro che il cinema; c’è soltanto la Zona.
Barattare lo spazio con il tempo – l’intuizione geniale che per due volte distruggerà le umane ambizioni di chi trovò la sua sconfitta in un estenuante assedio nel paese più vasto del mondo – diventa, per Dyer, cifra del sortilegio che sembra nascondersi nella stessa arte di Tarkovskij. E, al contempo, l’incantesimo che continua a coinvolgere il suo stesso libro capace di riportare uno scrittore sessantenne dal viso sorridente e dai lineamenti asciutti e minuti – qualcosa di simile a un reduce di qualche band new wave – nel ragazzo che fu e nelle passioni che hanno generato l’uomo.
Quando vidi Stalker ero estremamente sensibile o aperto, quando ero ancora così vulnerabile da lasciarmi trasformare e plasmare da ciò che vedevo. A un certo punto, anche se ti tieni aggiornato sulle nuove uscite (di libri, dischi, film), anche se continui ad allargare i tuoi orizzonti, anche se stai al passo con le ultime mode, ti rendi conto che queste mode non potranno mai essere più di questo, mode, che di rado avranno la possibilità di essere definitive, perché è stato anni prima che tu hai davvero sentito – o visto o letto – ciò che era definitivo per te.
La magia degli oggetti comuni scartati, l’archeologia filmica del quotidiano che caratterizzano l’opera del genio sovietico, fanno da contraltare ai giudizi anche feroci su altri autori come Michelangelo Antonioni – L’avventura [è] quanto di più vicino esista alla pura sofferenza cinematografica – come anche ai tentativi di altri di mettersi nel solco di Stalker come Andrei Zvyagintsev (con Il ritorno) e Lars von Trier (con Antichrist).
Tarkovskij è il grande poeta dell’immobilità nel cinema. In questo senso la sua visione è permeata dalla bellezza immobile delle icone russe […] ma come lui stesso ha spiegato, questa immobilità è l’opposto dell’immutabilità: «L’immagine è vero cinema quando (fra le altre cose) non solo vive dentro il tempo, ma anche il tempo vive dentro l’immagine, in ogni singola inquadratura».
Uno dei punti di forza del Tarkovskij artista è la quantità di spazio che lascia al dubbio. – ci dice Dyer ed è dentro a quel margine così ampio che s’inserisce questo libro che non è – e non vuole essere – “il” libro su Stalker ma uno delle tante possibili riposte davanti all’enorme quesito della grandezza di un’opera.
Come avveniva già nell’opera di Kubrick – in particolare la Zona può essere letta quasi come una risposta al monolito di 2001 Odissea nello Spazio, in un dialogo a distanza fra due registi che si osservarono da lontano e riscrissero entrambi, ciascuno con il proprio originale approccio, i nuovi parametri del cinema d’autore – Stalker resta un’opera che non dà risposte ma che pone domande; la stessa Zona, con la sua stanza misteriosa più si avvicina più sembra far distogliere i personaggi dall’obiettivo che avevano sognato come un terrore che attanaglia la loro stessa speranza. In termini di rappresentazione filmica ha ragione allora Dyer quando dice che lo scopo è l’elusione, non la rivelazione.
È questa, alla fine, è anche la cifra del lavoro di Dyer: un libro che è insieme fuga dalle proprie ossessioni e affascinante viaggio dentro le sue passioni di letterato e di uomo che ci offre con semplicità – come fossimo davanti a una birra in un pub inglese – il suo sguardo su tutto ciò da cui possiamo lasciarci affascinare non per appagarci ma per iniziarci quasi verso nuove strade e nuovi interessi.