Nella profondità di Lights di Fabrizio Cammarata

Profondità. Quella in cui lasciarsi andare o da cui risalire. E Fabrizio Cammaratanel suo ultimo lavoro Lights, come l’oracolo di Delfi, ne suggerisce la risposta. Sin dalla copertina dove il volto del cantautore dall’infanzia palermitana ma dal resto della vita senza confini – tranne la schiuma delle onde quando surfa – è immerso in un mare di sabbia, immortalato in quel preciso istante in cui ci si domanda se ci vorrà più forza a riemergere nella luce o a sprofondare nel buio. Intuendo che l’intero disco servirà a capirlo, senza dare per scontato che il titolo, che ne è il faro, sia anche la soluzione. 

È un flusso intimo e personale in undici brani, pubblicati per 800A Records/Kartel Music Group, che acquista la forma di un racconto universale. C’è l’amore, c’è la libertà e c’è la verità, quella che il folk ha sempre mirato a narrare, davanti al fruscio delle dita che scorrono su una chitarra acustica e un whisky che graffia la voce. Con quella sincerità che prende vita solo da canzoni che nascono per esprimere ciò che è nascosto senza cercare compromessi solo per intercettare quel che è già visibile. Perché di compromessi, in Lights, non c’è ombra. 

Un lavoro, prodotto da Dani Castelar, nato d’impeto dall’artista con alle spalle un’esperienza da band nei The second grace e nel 2017 protagonista con Dimartino di Un mondo raro, omaggio a Chavela Vargas, che ha preso forma in studio, sovvertendo le tappe della normale lavorazione. Abbandonare quanto di già preparato per lasciar spazio a urgenti arpeggi delicati, cori e note pizzicate che sono evidenti e legano le tracce. Sin da All is Brighter, in cui armonie atemporali danno il ritmo all’andamento che verrà che in Run run run diventa quello interiore. Non correre ma rallentare, perdersi nel momento, che nel brano suona quasi come un imperativo, perché «le verità più profonde scaturiscono dal fermarsi».

KV è la ballad, quella giusta. Carica, energica, accattivante e, perché no, anche plasmabile sul momento. «You know you’ll never coming back», si ripete Cammarata, e lo immagini con le braccia aperte perso in un campo di grano che volteggia. Il romantico folk continua con i due brani Eileen e Rosary – che si arena un po’ nel già conosciuto con Blue – raggiunge l’acme dell’intimo con Cassiopea dove fonde suoni e lingue. Ma è con Under the face, tra i singoli che hanno anticipato l’album, che viene fuori la grinta e il tempo si velocizza. Fino a Timbuktu, che nasconde l’ambizione di essere così immediata da mimetizzarsi in un alito di vento. «Oh I needed you more than you know / To start anew / Take this burden off your back / Free your lungs, they’re filled with sand /Break the ocean with your hands».

E così se per chi lo ascolta questo disco è una lotta intestina tra l’andare avanti, scegliere e riniziare o guardarsi indietro e lasciarsi coccolare dall’indecisione e da quel momento in cui ancora non si è superato il bivio. Per Cammarata, però, è un altro passo avanti verso una visione della musica e dell’arte senza confini, tecnici, linguistici o territoriali. Ma solo personali, quelli che delineano quel pianeta solitario in cui tutto è conosciuto e mai niente lo sarà. Lì dove per avendo tutto un senso, nessuno ci capisce nulla.

«È l’ambiguità, che emerge anche nella foto, quella di capire dove è la linea del tempo. Quel momento in cui vedi la luce e puoi scegliere. Già quando lavoravo a Of shadows, un disco di ricerca interiore intima e personale sulle parti buie della mia anima, sapevo che ci sarebbe stato un lato B. Avevo già delle canzoni, erano diverse, spensierate, con più luce e non potevo inserirle nell’ombra. Così le ho accantonate». 

Fabrizio Cammarata – Lights

È così che è nato Lights?

No. Anzi. Quando ho ripreso questi brani per registrare non mi ci sono più riconosciuto. Mi trovavo in un momento della mia vita delicato, non più così spensierato e il dilemma era: faccio il mio mestiere e li eseguo al meglio o seguo la spontaneità? Ecco, a poche settimane dall’ingresso in studio, a dicembre, ho scelto di dire a produttore e band: “Ragazzi quei pezzi scordateli”. Ma non ne avevo di altri se non qualcosina di accennato e lo studio era prenotato solo due settimane. Oggi capisco che sono state le più belle della mia vita. 

Un disco, quindi, tutto fuorché ricercato. Riuscirai a raccontare questo processo sul palco?

Avevo dentro un vulcano che stava esplodendo esattamente quando doveva esplodere. Così è nato il disco, pieno di canzoni d’amore, verso la vita, che con un lessico semplice vanno dritto al punto. So che è stato un rischio pazzesco ma ora mi guardo indietro e capisco che è il lavoro di cui vado più soddisfatto. Non mi preoccupo del palco, non ho mai ansia da prestazione e sono molto empatico quando ho davanti persone che riconoscono che sono nel mio viaggio, allora con spontaneità le prendo per mano. Lo farò anche in questo tour e sarà eccitante perché i pezzi sono nuovi per me, rispetto agli altri dischi che sono nati con anni di gestazione. Ogni volta che li ascolto mi sorprendo a scoprire cose nuove. Proprio questa freschezza voglio trasportare. Inoltre sarò per la prima volta in tour dopo anni con la band. 

Band, infatti, sei nato artisticamente con i The second grace. Vuol dire rinunciare a qualcosa di sé? 

In realtà anche con la band, la creazione dei brani partiva dal mio punto di vista autoriale da solista e poi si vestivano di un percorso costruito insieme. Ma non c’erano compromessi sulla scrittura, se non la ripetizione di un ritornello. Poi non ho mai scritto jammando con la band, sempre da solo. Tranne proprio in questo disco. 

Un disco che unisce la forza alla riflessione, la grinta alla consolazione nel pieno stile del folk nostalgico e, se si può dire, triste. È così?

Quando sono allegro non scrivo, preferisco andare in giro con gli amici o andare a surfare (ride, nda). Al di là di questo io scrivo con un faro: fare delle opere che mi consentano anche a 80 anni di dare senso al fatto che io stia sul palco a cantarle, senza essere compatito. Infatti non cado mai in brani eccessivamente depressivi, uno stile che non mi piace. Perché la luce c’è sempre, mascherata da un pizzico di ironia. Poi parlare di scelte è difficile, io non scelgo nulla. Sono spontaneo, e questo è positivo perché paga ma non sono padrone del mio processo creativo, insomma non so scrivere una canzone. A un certo punto lo faccio, ma non ho capito come si fa e potrebbe essere l’ultima buona che mi viene.

Quando hai scritto la prima?

Avevo 9 anni, la scrissi per farmi regalare una chitarra alla mia Comunione. Era un modo per dare voce ai miei capricci poi iniziai a studiare, divenne il mio canale alternativo per risolvere ciò che non riuscivo a dire a voce. Sono molto timido, da piccolo era quasi patologico. Poi, non ci si crederà ma è proprio come John Mayer, fu guardando Ritorno al futuro e Johnny B. Goode che decisi di voler intraprendere la strada del musicista. Così se mi piaceva una ragazzina, le scrivevo una canzone in un pessimo inglese. E a volte lo faccio anche adesso.

Parlando di lingue, quel che colpisce è che canti in inglese, ma non hai barattato il tuo nome e cognome italiano, quasi formato neomelodico. Perché questa scelta?

È successo una decina di anni fa, ho deciso che non dovevo nascondermi dietro un nome inesistente, forse era più comodo sotto diversi punti di vista, soprattutto perché è difficile da pronunciare, ma è come se mi fosse venuto in mente mio padre, il suo cognome e volevo che anche lui fosse orgoglioso di ciò. Volevo creare questo legame, così semplice e familiare. E da quando uso il mio nome parlo di me, dei miei angoli più intimi, sono nudo e crudo. Ma ti fa partire forse qualche passo indietro. La musica italiana, spesso per colpa di un pregiudizio diffuso, non viene percepita “cool” ma è anche vero che c’è una fascinazione che non ha mai smesso di prendere persone da ogni parte del mondo e portarle fisicamente o anche nell’immaginario in Italia.

Quindi nel tuo nome ci sono le tue radici. Quelle siciliane. È stata difficile la gavetta fuori dal continente?

Vivere in una città un po’ più grande, come Palermo con il suo esotismo e curiosità è stato un punto di forza. Ma la mia città è l’Europa intera, considerarla come l’America con un cuore solo. Quando cominci devi sin da subito a giocare un campionato molto più difficile, considerando che non è in questi chilometri quadrati che ti devi confrontare. Non il paese ma il continente. Poi c’è chi ha pensato che bisognava farsi un nome in Italia, sperando che servisse a poter uscire ma non per tutti è stato vincente.

L’europeismo a te ha pagato?

Tutto è stato molto più lento rispetto a un percorso concentrato su una città o regione. Ciò, nonostante io mi riconosca nella scena palermitana, così variegata. Non mi esprimo sul resto del panorama musicale italiano perché sono un po’ outsider. Sono pigro e solitario negli ascolti. Ma oggi, quando mi sento rispettato ovunque, non mi pento. Capisco di aver fatto la scelta giusta, è la ricompensa più grande.

E c’è qualcosa che ti rimane da sognare ora?

Qualcosa che non riuscirò mai a intercettare, come bermi un whisky in pub fumoso con Bob Dylan. Un sogno da aggiungere nella lista degli artisti fondamentali che ho incontrato come Ben Harper, Patti Smith o proprio Damien Rice è grazie a lui che ho deciso di mettere così a nudo la mia intimità. Con lui ho trascorso lunghe serate sul mio terrazzo, stimo il suo stato di grazia. È quello che provo a raccontare con Run run run, non correre ma fermarsi a capire ciò che è scomodo da scoprire. Non cambiare città, partner e modo di vita, sarebbe mettere la polvere sotto il tappeto. Ma fermarsi e respirare.

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