Neil Young and Crazy Horse – Colorado

Musica. Riduttivo darle una sola definizione. Ne servirebbe una per ogni nota, ogni verso e ogni flessione della voce. Quella stessa capace di incarnare i confini di eternità nel graffio di Neil Young. Triste, a tratti nostalgico, ma sempre consapevole di essere parte integrante di ciò che narra. E che trae energia proprio da questo, dalle battaglie, dalle paure, dalle ingiustizie, che oramai ultrasettantenne incarna trovando, nel suo rapporto con la band rock statunitense Crazy Horse, che ha compiuto i primi passi nel 1963, la giusta dimensione. Anzi, dopo una vita artistica passata a prendersi e a lasciarsi, la perfetta. 

In Colorado, la 39esima ode dello stoico cantautore, tutto questo è di nuovo realtà, come se fosse passata solo una folata di vento dal 2012, quando incisero la loro ultima simbiosi Psychedelic Pill. Oggi e ieri, speranze e obiettivi, delusioni e vittorie. Tutto si fonde in una ritrovata alchimia che piega il concetto di tempo a quello di arte. 

Già dalle prime note la nuova epifania si scopre nell’armonica da strada di Think of me. E la sensazione è che no, che sia nella mente o guardando fuori dal finestrino, non c’è più l’autostrada scura con case e auto che sfrecciano, una massa di persone in fila alle casse del supermercato o il cartellino pronto per essere timbrato, ma c’è la libertà, «When you see those geese in the sky, think of me/I can spread my wings and fly just like them». Ali che si aprono su una distesa immensa di colori, quelli tradizionalmente ocra del country più verace. 

She Showed me Love è una triste e intensa ballata che sembra porre la fine ben oltre il termine dei 13 minuti e 36 secondi della sua durata. Va a fondo, indaga nello sguardo di una donna e di un uomo, ma anche di un amore che di confini, sessuali, identitari e personali non ne ha. «If I tell you where I’ve been (Where I’ve been)/You might think I’ve lost my mind (Where I’ve been)/I saw young folks fighting to save mother nature (Where I’ve been)».

Olden days è una ballata tenera e nostalgica. A quegli amici che si perdono, a quegli amori che finiscono, a quei figli che non sono mai arrivati, a quei sogni infranti che conserviamo con candore, a quei giorni antichi che restano impressi nelle pieghe delle spine di grano dei campi percorsi, delle strade intraprese e dei cieli in cui ci si è specchiati. Torna il dolore grunge, pulito per quanto è grezzo e scevro da sovrasistemi, con Help me lose my mind. «Won’t someone help me lose my mind?», quasi un ultimo invito a ritrovarsi senza più punti di riferimento.

La sinestesia continua, senza deludere, con un tris di pillole di saggezza – Green is blue, Shut it down e Milky way – dritto fino a Eternity. È qui che torna la speranza, il respiro. «I hope we’re living in a house of love/For eternity», canta Neil. E come poter non credere che sia possibile, che, come conclude nel brano, allungando la mano verso un treno non si riesca toccare quella speculare capace di completarci. 

Come sa completare lui quelle emozioni mancanti che restano sulla punta della vita. Perché sarebbe semplice dire che il mondo ha ancora bisogno di Neil Young, come per ogni tentativo di rendere etereo un artista. Ma ciò che andrebbe davvero ringraziato invece è quella sensazione che ancora lo anima, che ancora lo spinge a condividere quella tristezza e nostalgia. Quella sensazione atavica di insoddisfazione, ben più astratta delle generazioni, che avvolge la società. Quella malattia dell’anima di un mondo che cammina senza raggiungere nessun posto, che grida senza dire nulla, che piange senza avere lacrime. Alla continua ricerca di avere qualcosa da cercare. 

È ciò a cui Neil dà voce. Sin dal suo «It’s better burn out than to fade away», tracciando un solco indistruttibile in tante vite e storie. Quindi, grazie alla superficialità, all’inettitudine, alla vorticosa smania di vincere e di finire costantemente delusi. Perché è per a tutto ciò che la musica passa dall’essere momento a eternità. «And became free», come canta in Milky Way. 

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