In certi momenti dell’anno la Pianura Padana, quella sotto al Po, assomiglia un po’ a Seattle. Non tanto per la sua storia grunge, Kurt Cobain e quel movimento che ne ha rappresentato l’anima in un determinato momento. Piuttosto per una questione di immaginazione collettiva, un ragionamento sul fatto che solo in una città densa di nebbia sarebbe potuto nascere un genere così, per ovvie imposizioni mentali o solo un residuo romantico, che ti spinge a credere che aver qualcosa in comune lo renda più vivibile e degno di nota. Non è così e, probabilmente, l’ultimo album dei Gazebo Penguins nasce anche per questo motivo, sulle cose che vorresti ma che non arrivano mai, città interiori che per essere raggiunte non ti basta un biglietto d’aereo. Forse perché quando guardi in basso, dal ciglio della Pietra di Bismantova, capisci che la nebbia esce soprattutto da dentro.
Ci sono dentro, per un questione puramente sentimentale, Seattle, e tutti i sogni che avevamo da ragazzini, quelli che si sono scontrati contro l’evidenza e che ci hanno reso chiaro il concetto per cui il fatto di scrivere poesie da adolescenti non ci avrebbe reso automaticamente materiale per le generazioni successive. Fornendoci anche, contemporaneamente, la consapevolezza di poterlo sfruttare a proprio vantaggio, la vittoria di chi è ostinato nel perdere. Credere che i Gazebo facciano parte di quell’ambiente un po’ punk e un po’ emo di adolescenti mai cresciuti, come sostenuto da un certo tipo di critica, significa non aver mai compreso ciò che hanno realmente da offrire. Ascoltare Legna – e accorgersi che sono passati già sei anni (quasi dieci se teniamo conto di The Name is not the Named) – ha lo stesso sapore malinconico di quando ripensi a quel periodo della vita in cui tutte le cose quotidiane erano una prima volta. Il calendario non aspetta mai, dopotutto, la cui rappresentazione emiliana è, appunto, la sua versione del Frate Indovino, sempre appeso dietro la porta in cucina dai nonni, con i suoi santi, i pleniluni e le date che contano cerchiate di rosso.
Si è sempre trattato di questo per i tre ragazzi dei Gazebo, ora quattro, usare la musica come espressione di sentimenti, rabbie e frustrazioni profondamente ancorate alla propria quotidianità. Adolescenziale, può essere, o forse è solo la via più diretta con cui raggiungere la sincerità emotiva, geneticamente richiesta dalla propria idea di fare musica. E, poi, Raudo, in cui questa espressività si è dichiarata in un disco pressoché completo, fatto di pezzi che si prendono una posizione di rilievo in un’ipotetica hall of fame dell’indie italiano di un certo periodo della tua vita. Fra Casa dei miei, Correggio e Trasloco si condensa proprio in quel sentore malinconico di chi ripensa che in fondo i 15 anni siano un po’ un’età di merda se la guardi dai trenta, nonostante tutto sembra ricondurti lì. La strada del ritorno a casa dopo un progetto fallito ma che se oggi mi sento piuttosto bene posso farcela. Nebbia non è il disco della maturità dei Gazebo Penguins, piuttosto è un modo di affrontare con un punto di vista differente il significato di certi suoi sentimenti, perché non sono mai stati adolescenti e certe ferite continuano a tagliare a quindici come a trent’anni. Tendenzialmente più oscuro, come faceva presagire Riposa in piedi, si trasforma in una specie di concept-album senza volerlo, per come si intersecano le storie attraverso la resa di un tono più concentrato e costante. Ma è un legame sottile che cambia in continuazione, immateriale come, ancora una volta, la nebbia quando cerchi di stringerla con le mani.
La Pietra di Bismantova è una figura equivoca nella mitologia dell’appennino reggiano. È un punto di vanto per alcuni, questo isolato monte di mille metri dalla forma di tacco, una delle chicche della zona insieme al castello dell’umiliazione di Canossa fra Enrico IV e la Chiesa, e le strade partigiane. Per altri è invece un posto doloroso e maledetto, perché qualcuno, pieno di nebbia dentro, ha deciso di buttarsi. Sono le assenze a contare, e trovare un modo per far sparire quei fantasmi senza dimenticarli, perché tempo e ricordi si perdono solo una volta. Questa idea di Difetto ritorna, si è fatta necessità di condividere questa situazione, per combatterla o sentirla, solo, più vera. Contro i tentativi di lasciarsi andare allo stato delle cose (Soffrire non è utile), giusto per avere un rifugio, o tutte quelle cose che affossandoti rischiano di farti scomparire. Il collegamento alle proprie esperienze è costante, costituisce un’ossatura solida che non pretende di fare poesia decadente né darne un tono post-rock, le canzoni dei Gazebo Penguins sono narrate così, come le racconteresti a un amico e ancora, cambiare idea non cambierà quello che è già successo. Sembra dirti prenditi cura, anche di quello che odi, perché poi ti mancherà se è parte di ciò che sei. In fondo un monito ruggente come Iggy, tagliente come l’ironia di Freak Antony, ma che più che guardare all’abitudine come argomento di cui prendersi gioco, mira a dare spazio a chi la subisce, dal di dentro. Quella sacralità delle proprie cose che cercava di restituire Kurt Cobain, sempre perché certe storie, in termini di riferimenti, non ti si staccano mai. Nebbia è un racconto di una casa, lontana, che quasi non si vede per tutto il grigio che ha attorno, ma a cui sapresti arrivare anche a occhi chiusi.