Questa è una storia di contatto, o meglio, di tre diversi tipi di contatto, persi e ritrovati. Una storia che si articola su tre livelli narrativi e che vede come protagonista sempre lo stesso personaggio: Nathan Fake. Nato e cresciuto nella contea di Norfolk, il ragazzo è parte integrante di un ceppo di avventurosi produttori di musica elettronica con base nel Regno Unito. Aphex Twin, Luke Abbott e James Holden, per citare alcuni tra i più noti. Fin dal suo esordio nel 2006 con Drowning in a Sea of Love appare evidente che a Fake non manchi la paura di sperimentare: l’album è un susseguirsi di svolazzi post-techno e glitch in un mare (appunto) di eteree atmosfere. Anni dopo, con Steam Days, una nuova direzione più emotiva e personale, forse meno da club, è presa, a conferma del fatto che il non adagiarsi e il voler andare oltre è un qualcosa a cui non può e non vuole sottrarsi.
Nel 2012 si innesta il primo livello narrativo. Fake viene colpito dal peggior morbo che possa aggredire un’artista, scrittore o musicista che sia: il blocco creativo. Derivato, stando ad alcune indiscrezioni, da una serie di grigie questioni personali, si fa strada nella mente del ragazzo, paralizzandone la vena produttiva e creando un corto circuito che lo lascia a terra impantanato. Il primo contatto – quello tra il musicista e la sua musica- è interrotto. Diverse sono le possibilità che si aprono in scenari come questo: forzarsi e continuare a scrivere per trascinarsi fuori dalla palude a forza, ammettere e ammettersi la crisi e decidere di prendersi del tempo per tornare sulla scena più tardi, o lasciarsi consumare piano piano dalla malattia. A prescindere dal percorso fatto, a Fake sono stati necessari quasi tre anni di vuoto assoluto in quanto a capacità di comporre qualunque tipo di musica, prima di essere in grado di riallacciare i fili e riattivare il flusso di corrente.
Il risultato si è concretizzato in Providence, un disco di inaspettata e rara lucentezza, inciso durante i primi sei mesi del 2016 direttamente nel suo studio di casa. Caratterizzato da un continuo alternarsi di paesaggi sonori onirici e surreali, il tratto distintivo che ne accomuna inequivocabilmente tutte le tracce è il suono creato tramite un Korg Prophecy, sintetizzatore cult di metà anni ’90. Lo stesso producer ne ha parlato come di una macchina “strapazzata” e portata ai propri limiti, dalla quale è stata spremuta ogni possibile stilla. Su queste basi poggia il secondo livello di contatto, quello tra l’uomo e il suo strumento: che sia stata la boa cui aggrapparsi in mezzo a un oceano di difficoltà o il fedele amico di vecchia data prodigo di consigli all’inizio del processo di ripresa, è lampante il riferimento alla forza di questo legame, evocato nello stesso titolo dell’album. Di certo, le limitazioni imposte dall’utilizzo di una tecnologia ormai desueta hanno spinto il lavoro di Fake verso una direzione di sonorità più complesse, a volte quasi sovrapposte, ma con un’impronta sonora globale molto ben delineata, a far da solida colonna vertebrale all’organicità dell’insieme.
Addentrandosi in mezzo a questa selva di suoni prende subito forma un uroboro elettronico composto da feelings 1 e 2, scintillanti pezzi farciti di synth ariosi, che aprono e chiudono il disco, invitando l’ascoltatore a mettersi a proprio agio in quello che sarà un viaggio circolare. Si tratta di un’apertura morbida prima delle percussioni pulsanti di Providence, una traccia caleidoscopica che preannuncia qualcosa di più inquieto, e all’ancòra più ansiogena HoursDaysMonthsSeasons, che racchiude in sé il disagio provato nell’aver visto trascorrere inesorabile il tempo, potendolo solo osservare impotente. E’ il portale che si spalanca sul terzo e più profondo livello di contatto, quello dell’artista -e dell’uomo- con se stesso: un rilascio di tensioni emotive in un percorso catartico che parte da uno stato di agitazione e frenesia e giunge, riuscito, ad uno di riconciliazione. Passando attraverso le chitarre torturate di SmallCityLights e alle voci distorte di Prurient (aka Dominick Fernow) nella tanto oscura quanto splendida Degreelessness, si ha come l’impressione di rivivere il buio nel quale era sprofondato Fake, per riemergerne più avanti con la voce melodiosa di Raphaelle Standell-Preston in RVK.
Providence rappresenta chiaramente un ulteriore serio sviluppo nella carriera del ragazzo di Norfolk, una capacità di evolversi e di andare oltre, in questo caso almeno, anche le peggiori difficoltà. Non a caso il disco è prodotto da Ninja Tune, tra le migliori e più grandi etichette indipendenti del pianeta, segno incontrovertibile del fatto che alla fine l’artista è riuscito a piegare il tempo a suo favore. In questa storia di contatti c’è dunque un lieto fine. Bentornato Nathan.