L’uomo e la terra che non gli appartiene | Intervista a Natalia García Freire

L’uomo e la terra. Il contatto e la fuga.
Quella che Lucas credeva casa sua non lo è più. Lo è mai stata? E sua madre che fine ha fatto? Tutto sembra cambiato da quando quei due sconosciuti, Felisberto ed Eloy, sono apparsi per la prima volta sull’uscio di casa e ora ne sono i proprietari. Eppure la casa è lì, davanti ai suoi occhi, intatta, ma non è rimasto niente di tutti i ricordi che sperava di trovare, le persone amate, un rimedio per il tempo trascorso che non può più tornare. Tutto è cambiato, anche il giardino tanto amato dalla madre, Josefina, che ora versa in uno stato di degrado. Il ritorno di Lucas è accompagnato da un continuo dialogo mentale con il padre morto, seppellito proprio in quel giardino, che non trova pace. Un dialogo che si riscopre un monologo sofferto e continuo, che trova solo una parziale soluzione nel confronto con l’universo degli insetti in una narrazione lirica e toccante, dove l’antropocentrismo lascia spazio a uno spiritualismo che rievoca elementi tipici della narrativa sudamericana, a un vitalismo panico dove il legame tra l’uomo e la natura è inscindibile.

Questo mondo non ci appartiene di Natalia García Freire, selezionato dal New York Times fra i migliori libri dell’anno, è stato pubblicato dalla casa editrice Sur a febbraio. L’autrice, nata nel 1991 a Cuenca (Ecuador), insegna scrittura creativa all’Universidad del Azuay. Ho avuto il piacere di intervistarla in occasione di Libri come, la rassegna di libri organizzata all’Auditorium Ennio Morricone di Roma, al termine del suo incontro. Si ringrazia Giulia Zavagna per la traduzione.


Questo mondo non ci appartiene è il suo libro d’esordio. Quando nasce e perché?

Il romanzo è nato molto tempo fa, durante la mia infanzia, quando vivevo nella casa dei miei nonni. È nato nel ricordo delle persone che non ci sono più e che non riuscivo più ad ascoltare con la sola reminiscenza, ma questo progetto si è rinforzato mentre studiavo in Spagna per un master di scrittura creativa. L’idea iniziale del romanzo era quella di raccontare la storia della casa dei miei nonni, ma trasformandola in qualcosa che mescolasse sogno, immaginazione, irrazionalità. C’erano delle domande che mi tormentavano, che non mi permettevano di andare avanti, alle quali dovevo cercare delle risposte. Ed erano domande sul delirio, sulla morte, sulla solitudine e sull’esigenza di trovare un posto da chiamare casa, dove non si è mai deboli, dove ci si può sentire al sicuro.

La terra intesa come possesso, conquista, ma anche come luogo identitario, uno spazio in cui l’individuo si riconosce e trova sicurezza. Lucas la possiede e poi la perde. Contro la visione religiosa del protagonista, è nella terra, nel possesso materiale che l’uomo trova la sua affermazione?

Credo che nel possesso della terra l’uomo in realtà trovi la sua assoluta perdizione, la sua solitudine. È un altro il modo di abitare la terra, che non consiste nel possederla, ma nel contemplarla, nell’incontrarla. È un conflitto che ha molto a che vedere con la mia identità, ci sono molti opposti in gioco, il sacro e il profano. La religione, le credenze indigene. Lucas riesce a rappresentare queste contraddizioni molto meglio di me, è lui che decide di non possedere la terra, ma di andarvi incontro. Risolve questo conflitto alla fine.

“Ma Dio non sapeva quel che so io, non ha saputo insegnare all’uomo a decomporsi, a perdere la voce e le parole, a liquefare le viscere, a elevarsi e a scappare dal suo corpo di uomo, che è solo una crisalide. Benedetta musica, benedetta melodia che sussurra.”

Lucas vive con sofferenza la condizione di re spodestato dalla propria terra che lo porta fino alla disperazione, ma qui più che una condizione personale sembra uno stato universale, un destino comune che attende tutti: la perdita di ogni cosa. E questa riflessione si lega inesorabilmente alla tragedia a cui stiamo assistendo in Ucraina a cui è e sarà legato un drammatico esodo. È così?

Credo che sia una condizione universale che esiste in tutta la letteratura, questo concetto di paradiso perduto, di casa a cui non si può fare ritorno. Un argomento universale che Lucas vive però in modo molto personale per alcuni elementi che lo caratterizzano: abitare sulle montagne andine, aver subito una specie di invasione del pensiero religioso e cattolico in particolare. È un argomento che riguarda il nostro modo di vedere il mondo.

Mi sembra che gli insetti offrano uno sguardo obliquo, una prospettiva diversa per osservare il mondo, gli eventi, i personaggi. Sono più una via di fuga dalla realtà opprimente per il protagonista o un punto d’unione tra l’uomo e la terra, un modo per restare in contatto con essa?

Credo che siano entrambe le cose. In fondo gli insetti possono rappresentare metaforicamente l’immaginazione di Lucas, l’estensione immateriale del suo immaginario, e dall’altra parte fungono da intermediari tra la vita e la morte. Sono le creature che a un certo punto ci divoreranno e ci trasformeranno in qualcosa di diverso, di migliore forse.

L’intero romanzo è attraversato dal tema religioso, da una ricerca trascendentale che spinge sia il lettore che il protagonista a interrogarsi sui grandi temi esistenziali. Secondo lei Lucas ha trovato Dio alla fine? Ed era lì dove credeva che fosse?

Quello che ha trovato Lucas è qualcosa di sacro, ma non etereo. Qualcosa che può adorare più facilmente di come potrebbe adorare un dio religioso. È come se avesse trovato un dio animale, vegetale, molto più simile a quelle divinità ancestrali che non avevano una connessione così forte con l’uomo, bensì con la natura.

Foto intervista, García Friere e Nunzio Bellassai

Quanto ha influito il lockdown sulle sue scelte e sul suo modo di scrivere? Come ha vissuto quel periodo di isolamento?

Il romanzo è stato scritto prima della pandemia. Non credo che abbia cambiato la mia scrittura, ma ha sicuramente alterato il nostro modo di abitare e di abitarci. Il mio modo di scrivere è diventato più pessimista, ma anche più immaginativo; questa possibilità mi permette di fuggire con l’immaginazione da ogni forma di conflitto, da questo mondo dominato da uno sguardo maschile e da una certa decadenza. Durante la pandemia ho cercato di scrivere di meno, leggere di più e passare più tempo nel mio giardino.

Che progetti ha per il futuro?

Ho scritto un altro romanzo durante la pandemia che verrà pubblicato a breve in Spagna. Per il resto i miei progetti sono essenzialmente godermi il mio giardino e il mio gatto. Ho più progetti di lettura che di scrittura, perché per me la scrittura è sempre un incontro con la ferita, quindi non la riesco a considerare un progetto. Più come una forma di abitare il dolore.

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