Nascondersi, intervista a Jaime Fountaine

Come in un altro libro di Pidgin Edizioni – Il libro di X di Sarah Rose Etter , Nascondersi di Jaime Fountaine ha come protagonista una giovane ragazzina della calda provincia americana. E con lei tutto ciò che consegue l’essere un adolescente e ancor di più una ragazza adolescente, con un corpo che cambia e che deve muoversi tra le altre persone che abitano il suo stesso spazio pubblico e privato. La continua tensione tra il voler essere invisibili ed essere riconosciute, il riscontrare un riconoscimento altrui, tra i ragazzi e la madre, e allo stesso tempo dover badare a sé stesse quando la socializzazione come donna può essere un pericolo. Di questo e altro ho avuto il piacere di discutere con l’autrice.

Ciao Jaime, intanto grazie per questa intervista. Vorrei iniziare da un dettaglio che sicuramente colpisce molto leggendo la tua brevissima bio. Dici infatti di essere stata cresciuta dai “lupi” ed è un’immagine che mi ha evocato uno scenario un po’ da “Running with the wolves”, la canzone della cantante norvegese Aurora. Ma chi sono questi “lupi”?

Anni fa, quando mio fratello stava andando a vivere con unə nostrə amicə, nostra madre si presentò a quella persona dicendo “Scommetto che i miei figli ti hanno detto di essere stati cresciuti dai lupi. Beh, sono io i lupi.” Al plurale. Ormai non abbiamo più rapporti con lei da molto tempo, ma io e mio fratello continuiamo a riderci su. Mi viene molto difficile prendermi sul serio, quindi lo trovo un buon equilibrio tra una sorta di verità e una battuta.

E in questa crescita con i lupi come sei arrivata alla scrittura?

Ho imparato a leggere quando ero abbastanza piccola. Non ero una bambina che riceveva molta supervisione e non ho avuto amici veri fino alle scuole superiori, quindi sono stati i libri a tenermi compagnia e a insegnarmi la maggior parte delle cose che so del mondo. Per me, essere una scrittrice è stata una conseguenza dell’essere una lettrice.

Jaime Fountaine

La protagonista di “Nascondersi” è una ragazzina di 13 anni, che vive con la madre con cui ha un rapporto conflittuale e affronta quel periodo che tutti siamo un po’ grati di esserci lasciati alle spalle – l’adolescenza. Nei riconoscimenti finali tu definisci questa storia come una “storia di solitudine”, cosa ti ha spinto a ritrarre una giovane ragazza in quel momento della vita?

Avere 13 anni – trovarsi in quello spazio stranissimo tra l’essere una bambina e l’essere un’adulta – è una fase davvero strana. La gente ti tratta come unə bambinə, ma si aspetta un’improvvisa maturità. Sei ancora giovanissimə, ma senti di sapere tutto, e quasi sicuramente sai più di quanto ti venga riconosciuto. Se, come la narratrice, stai sviluppando un corpo adulto, devi anche affrontare le modalità con cui le persone, e in particolare gli uomini, sentono di avere diritti sui corpi degli altri.

È quasi inevitabile sentirsi un po’ soli durante l’adolescenza?

Penso di sì. Da piccoli, non si ha molto controllo sull’ambiente, sulla gente che ti vede, su ciò che accade nella tua vita. Devi farti bastare qualsiasi cosa tu abbia a disposizione, e spesso non si tratta di persone che ti capiscono. Ci può volere molto tempo prima di trovare la propria gente.

“Nascondersi” è un romanzo di formazione cupo: la fase di pubertà della protagonista quasi la costringe alla pressione delle prime esperienze sessuali, ad avere un corpo che diventa oggetto di scrutinio di occhi esterni, che lo giudicano e allo stesso tempo vogliono toccarlo. È qualcosa a cui un po’ tutte, da un certo punto in poi, siamo costrette ad abituarci?

A pensarci è davvero deprimente! Vorrei dire di no e che ciò fosse vero, ma le persone in comunità marginalizzate devono affrontare tante offese e violenze ogni giorno, e finché tuttə non saranno al sicuro non si può far finta che non sia così. Quando la gente percepisce di avere potere su di te, l’istinto è rimanere attentə, di proteggersi. Non si tratta semplicemente di essere una donna, ma di essere la persona più vulnerabile in una data situazione.


La lunghezza breve – resta una novella dopotutto – e la struttura episodica aiutano a far restare sempre presente all’interno della narrazione una sorta di tensione legata alla violenza a cui la protagonista è a rischio. Come sei arrivata a questo tipo struttura?

Il libro è originato come pochi pezzi brevi che avevo scritto e che sembravano avere la stessa narratrice, ma non ero sicura di come o perché fossero connessi. Ho letto un libro magnifico scritto da Steven Dunn, Potted Meat, che aveva una struttura simile, piccoli lampi a sé stanti ma che insieme componevano qualcosa di incredibile, e mi ha aperto un sacco di possibilità per quei piccoli semi di idee che avevo. Col tempo le idee hanno formato qualcosa di simile a una novella, e Mason Jar Press, il mio editore americano, ci ha visto qualcosa e lo ha pubblicato dopo averlo editato un botto. Hanno fatto un grandissimo lavoro.

Il romanzo è ambientato nella periferia americana d’estate, in un momento che precede la tecnologia che è diventata quasi come nostre estremità. La voce è situata, ed è quella di una giovane ragazza, come già detto, ma quanto può influenzare il contesto sociale in cui si vive? Quanto la precarietà economica, e non solo il genere, influiscono sulla crescita e i pensieri della protagonista?

Io posso solo usare la prospettiva di un’americana quando parlo di classe e denaro, quindi spero che ciò si traduca bene. Agli americani viene insegnato di credere che tutti possono avere successo, che basta soltanto un’ottima idea o qualche anno di duro lavoro per la grande svolta, e che dopo sarà tutto in discesa. Ma è una cazzata totale. Viviamo in un sistema progettato perché i poveri restino in povertà, che permette alle persone con accesso al benessere generazionale di dire di essersi fatte da sole. Gettiamo vergogna sulle persone che hanno bisogno di aiuto solo perché chiedono aiuto, e poi ancora vergogna perché lo accettano. È incredibilmente malato. La narratrice non ha necessariamente una completa consapevolezza di questo sistema, ma capisce che lei non ha, e non può avere, lo stesso accesso alle stesse cose, la stessa stabilità delle persone che conosce. E io credo che questa sia ancora un’altra barriera tra lei e i suoi coetanei, un altro modo in cui lei è sola.

Uno dei nodi della narrazione è anche il rapporto con la madre – anche lei la troviamo a vivere una solitudine tutta sua fatta di maschere da indossare con gli uomini che si intervallano nella sua vita e che ha pochi atteggiamenti di cura nei confronti della figlia, tanto che è quest’ultima a volte a doversi prendersi cura di lei. Sono entrambe due donne vittime a loro modo di un sistema patriarcale la cui influenza le porta inevitabilmente allo scontro, alla competizione. La mia è una analisi errata?

No, è proprio così! È sempre interessante sentire le interpretazioni degli altri, perché ci sono alcune persone che la leggono semplicemente come una storia su una ragazza e la sua terribile madre, e poi ce ne sono altre che riescono a vedere al di là dell’opinione incredibilmente di parte che la narratrice ha della madre e che riescono a notare che, al netto delle sue colpe, anche lei soffre.

È innegabile che ci sia un piccolo proliferare di racconti di formazione che partono da un punto di vista femminile scritti da scrittrici. Da cosa dipende secondo te?

Per moltissimo tempo, le uniche storie di formazione che venivano considerate “universali” erano quelle di uomini bianchi, cis ed etero, e tutto il resto veniva considerato “di nicchia”. Le persone erano costrette a cercarsi laddove non si rispecchiavano. Io credo che gli editori più piccoli siano più coraggiosi. Danno alle persone l’opportunità di pubblicare storie diverse da quelle che ascoltiamo sempre, e quando queste storie trovano il proprio pubblico incoraggiano altre persone a scrivere altri tipi di storie.

Per quanto non creda che la letteratura debba raccontare solo qualcosa in cui rivedersi e pensi che l’arte sia proprio un terreno dove osservare l’altro da sé, pensi possa avere un effetto positivo intercettare qualcosa di sé in personagge con un vissuto simile, magari e soprattutto in giovane età?

È bello rivedersi nell’arte. Ci fa sentire meno solə.

Quando scrivi pensi a chi ti leggerà? E se sì, in questo caso avevi in mente un pubblico in particolare?

Quando scrivo, spesso lo faccio per tentare di cogliere qualcosa che provo ma che non riesco a spiegare del tutto. È un po’ come David Lynch che dice di essersi dato al cinema perché voleva far muovere i dipinti. Non penso tanto ai lettori quanto penso se sto riuscendo o meno a realizzare quel che sto provando a fare.

Sono ancora sbalordita che qualcuno abbia letto il libro. È stato tutto davvero surreale. Sono grata a chiunque abbia passato del tempo con il libro. Mi ha sorpreso molto sentire quanto la gente si sia rispecchiata in esso. Ho raccontato quella che io sentivo essere una storia molto specifica, ma credo che ci sia molto di universale in quelle specifiche. Dev’essere così se una storia su un sobborgo americano arriva fino in Italia, giusto?

E invece cosa piace leggere a te? Hai qualche tua ultima lettura che consiglieresti alle nostre lettrici e ai nostri lettori?

Dato che in questo momento si avvicina la fine del 2021, e che faccio pena a scegliere i miei libri preferiti, mi limito a elencare i migliori libri usciti quest’anno che ho letto, senza un ordine in particolare:

“I’m Not Hungry But I Could Eat” di Christopher Gonzalez

“The Guild of the Infant Saviour” di Megan Culhane Galbraith

“Darryl” di Jackie Ess

“A Dream of a Woman” di Casey Plett

“Go Home, Ricky!” di Gene Kwak

“Nightbitch” di Rachel Yoder

“Transmutations” di Alex DiFrancesco

“A Little Devil in America” di Hanif Abdurraqib

“White Magic” di Elissa Washuta

 

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