Peppino De Filippo, indimenticabile spalla di Totò in innumerevoli film che hanno segnato la comicità italiana in bianco e nero, affermò che far piangere è molto meno difficile che far ridere. Se questa massima è valida in generale, lo è ancor di più per la letteratura. È infatti relativamente comune ridere di gusto per un film, per uno spettacolo, persino ascoltando alcune canzoni, come quelle degli Elio e le Storie Tese dei tempi d’oro. Ma provocare il riso attraverso la letteratura, ecco, quella è un’operazione maledettamente difficile.
Spalmata su una pagina, circondata da un mare di altre frasi e periodi, soggetta alle tempistiche di lettura variabili per ogni singolo lettore, la battuta in un libro tende a sbiadirsi, a diluirsi perdendo il suo sale, e riesce quindi al massimo a suscitare un lieve sbuffo di narici, supremo traguardo del divertimento. Per me, il primo e per lungo tempo unico autore che riuscì a farmi esplodere in una risata autentica, sincera e sfacciata fu Stefano Benni con il suo Bar Sport. In una torrida sera d’estate di molti anni fa, leggendo della Luisona, dei tipi da bar, delle strampalate avventure romanticamente bolognesi, scoprii che sì, anche con la letteratura si può ridere.
Dopo di lui però, come dopo il Re Sole, fu però il diluvio. Fu anche peggio, a dire il vero, perché era come aver scoperto la birra e non riuscire più a trovarla sugli scaffali dei supermercati, come aver gustato la pasta al forno e poi trasferirsi in Germania. Sapevi che una cosa – la letteratura che effettivamente fa ridere – esisteva, ma non riuscivi più a trovarla. Perché, come detto, divertire in un libro è difficile: servono idee, una profonda cultura, ritmo, un’apparente leggerezza che però ha alle spalle una sostanza di piombo. Avevo quasi rinunciato a riprovare le sensazioni provate con Bar Sport, mi rassegnavo a diventare un vegano della risata su carta stampata, quando, nella torrida estate di un anno fa (che sia la torrida estate a essere propizia?), mi ammiccò dallo scaffale della libreria il pappagallo di copertina di Dente per Dente. Autore: Francesco Muzzopappa. Ne sfogliai le pagine, mi soffermai a leggerne una e, improvvisa come allora, scoppiò una risata così vera da far voltare i presenti. Avevo trovato un secondo Stefano Benni.
Francesco Muzzopappa è uscito il 14 giugno con il suo quarto libro, Heidi, edito come i precedenti dall’ottimo Fazi, e ancora una volta ha confermato il suo irresistibile talento. Ambientato nella contemporanea Milano workaholic, il romanzo racconta le vicende di Chiara, una post trentenne single intrappolata tra il suo lavoro di casting director per la Videogramma, svalvolata casa di produzione di assurdi reality, e un padre, Massimo Lombroso, ex severissimo critico letterario del Corriere della Sera, malato di Alzheimer. L’unica memoria stabile rimasta al padre è il cartone animato Heidi, che guardava insieme a Chiara quando lei era piccola e che costituisce l’unico anello dell’altrimenti precario rapporto padre-figlia. L’universo montano delle caprette che salutavano sempre (come defunti e serial killer) si traspone così nella realtà, al punto che, nella testa di Lombroso, a prendersi cura di lui non c’è la figlia Chiara ma, appunto, Heidi.
Ciò che però conta più della trama in sé, che non si discosta molto dalle vicende all’insegna del capitano tutte a me dei tre libri precedenti, è constatare come la forza umoristica di Muzzopappa sia rimasta inalterata, facendosi addirittura più precisa, più prorompente. Se nelle altre opere si indugiava su un riso più generico e spensierato, un risus gratia risu che riguardava la quotidianità e non aveva altra ambizione – seppur nobilissima – che far divertire, in Heidi si è compiuto il passo successivo. Al fondo della risata rimane infatti a galla un interrogativo, uno spunto di riflessione su quello che la società lavorocentrica è diventata oggi, perfettamente riassunta nella frase già iconica: “Quando dedichi al lavoro le energie destinate al tempo libero, il tuo tempo libero è una merda.” Siamo proprio così sicuri di voler continuare a vivere in una società del genere, che premia casi umani solo perché ci fanno pena e possiamo deriderli sbattendoli in Tv? Non ci meritiamo qualcosa di meglio?
La risposta, implicita ma non troppo, è sì. Ed è lo stesso autore a incarnare il meglio che tutti noi dobbiamo pretendere, da noi stessi prima ancora che dagli altri. Muzzopappa, infatti, non appartiene alla categoria di attoruncoli, incapaci showman, raccomandati o protégée che ormai intasa a malo titolo le librerie. Di professione “ufficiale” copywriter, tra i più rinomati peraltro, e quindi uno che di parole se ne intende, ha con molta umiltà intrapreso il corso di scrittura con Raul Montanari prima di cimentarsi con il romanzo. A partire da Una posizione scomoda, ha poi sempre alzato l’asticella, affinando la sua tecnica, tematiche, tempi comici e personaggi, senza mai snaturare il suo tratto inconfondibile: essere insuperabilmente divertente.
Non si può che ammirare chi, resistendo all’assedio di quegli inutili e sempre uguali freaks a caccia dei dieci minuti di notorietà che costellano Heidi, lavora invece con fatica e abnegazione a migliorare il suo lavoro. Soprattutto se facendolo, in una torrida estate, ci fa anche ridere di gusto.