Dalla Summer of Love al beat: l’anno prima di Woodstock in musica

La vita sessuale è cominciata
nel millenovecentosessantatré
(che era già piuttosto tardi per me) –
tra la fine del bando a Lady Chatterley
e i Beatles con il primo LP.

Philip Larkin

Gli yé-yé, la Beatlemania, il rock’n’roll dei Rolling Stones, le prime grandi manifestazioni di massa come il concerto evento di Woodstock: negli anni Sessanta la gioventù protesta, balla, scopre sogni e utopie. Nel suo racconto delle rivolte studentesche in Francia, Edgar Morin parla di una vera e propria “cultura della gioventù”: l’immaginario di beatnik e hippies, il culto di James Dean, le prime grandi proteste a Berkeley e nelle università, danno forma a quella gioventù ribelle che dagli Stati Uniti all’Europa vuole affermare la sua voce, e riesce a farlo anche grazie alla musica. Se Elvis Presley aveva risvegliato i giovani da un lungo sonno con i suoi ritmi rock’n’roll, la colonna sonora di quella generazione trovò i suoi splendidi portavoce in tanti protagonisti.

Abbiamo scelto qualche nome per raccontarvi un’utopia che è ancora estremamente vicina. Ecco alcuni dei grandi protagonisti degli anni Sessanta, e di quel fremito che attraversò il mondo.


Bob Dylan

La “voce di una generazione” che aveva preso parte alla grande marcia su Washington nel 1963, appena cinque anni dopo era già altrove. In soli cinque anni Dylan aveva radicalmente trasformato la storia della musica come quella sua personale. Tra il ‘65 e il ‘66 aveva dato alle stampe la trilogia elettrica attirandosi le ire dei puristi del folk e guadagnandosi però l’adorazione assoluta dei nuovi fan del rock ‘n’ roll. Ma insieme ai nuovi successi erano arrivate le droghe (marijuana, eroina, anfetamine) e una vita spinta al massimo. È il 29 luglio del 1966: Dylan, appena venticinquenne, ha un incidente di moto, ancora oggi avvolto nella leggenda; ma è l’occasione perfetta per scomparire e rifiutare ogni etichetta. Si ritirerà nella sua casa nei boschi di Woodstock, con la moglie Sara e i figli.

«La svolta decisiva fu ritornare a Woodstock. Poco dopo il mio incidente. Stavo senza far niente una notte sotto la luna piena, guardai nel bosco tetro e dissi: “Qualcosa deve cambiare”». Inciderà due dischi, scriverà e registrerà con la Band decine di canzoni che saranno per anni il Santo Graal dei Basement Tapes; ma si terrà lontano dalla contestazione pubblica, scegliendo di cambiare se stesso e il sistema che lo aveva circondato. Quando nel 1969 ci sarà il grande festival a due passi da casa, Dylan si rifiuterà di partecipare, adducendo scuse e motivazioni che ancora vengono discusse. Ma il suo imprinting nella spinta verso una nuova società resterà immutato e a portare la sua musica nell’anno della contestazione ci penserà Jimi Hendrix con una versione incendiaria di “All Along The Watchtower” da Electric Ladyland.

Fabio Mastroserio

Jimi Hendrix

La storia di Seattle in musica non inizia con il grunge e Kurt Cobain. 50 anni prima, nella città dello stato di Washington, nasceva da padre afroamericano e madre Cheyenne, James Marshall Hendrix uno dei più illustri membri del club dei 27. Mancino, di umili origini, decise che il modo migliore per suonare una chitarra fosse semplicemente montarne le corde al contrario e suonarla rovesciata. O dietro la schiena. O coi denti. Insomma cose così.  Quando Chas Chandler (Animals) lo adocchiò mentre faceva il funambolo nel Village a New York, gli consigliò di andarsene a Londra per svincolarsi di un contratto capestro. Lì formò la Experience e spiegò al mondo che sì, Slowhand Clapton sarà stato anche dio, ma che il blues, da Robert Johnson in poi non aveva nulla a che vedere con l’altissimo. Tutt’al più con lo sciamanesimo, scimmiottato in quel periodo da Jim Morrison, impersonato da Jimi stesso quando con giacche sgargianti e fascia in testa (si dice a nascondere un cartoncino lisergico), dopo aver fatto parlare, ruggire, urlare e piangere le corde della sua stratocaster rovesciata, la bruciava respirandone i fumi per prenderne l’anima.

Nel ‘68 Hendrix ci arriva da fenomeno internazionale. Suona ovunque, ha stuoli di groupie (vi consiglio di approfondire la figura di Cynthia Plaster Caster) ed è proprio nel ’68 che dà alle stampe il capolavoro Electric Ladyland, un disco con cui, svincolatosi dell’influenza di Chandler (che ne era diventato il manager) si aprì a quella sperimentazione che interessò tanto Miles Davis da fargli dichiarare, anni dopo, che l’unico rimpianto della sua vita era di non esser riuscito ad incidere un disco con Jimi Hendrix (eppure era stato contattato anche Paul McCartney per il basso). “1983 (A Merman I should turn to be)” contiene assieme l’antimilitarismo, l’atmosfera onirica e tutti suoni che Hendrix ben prima dell’avvento dei sinth era in grado di tirar fuori dalla sua strato. Questo più che le varie “Purple Haze” o “Voodoo Chile” è il Sessantotto di Jimi Hendrix.

Seppino Di Trana

Janis Joplin

Una ragazza fugge via dal Texas e giunge a San Francisco, mentre intorno scoppia la Summer of Love: in una riga, la storia di Janis Joplin, che a 17 anni lascia la casa dei genitori a Port Arthur per intraprendere la strada del blues, che percorrerà a velocità altissime come si addice a chi percorre le highways californiane, per spegnersi in soli dieci anni di straordinaria carriera. In una sera di ottobre, Janis reclama il suo posto nel celebre club dei 27: il suo corpo senza vita è ritrovato al Landmark Motor Hotel di Los Angeles appena due settimane dopo quello di Jimi Hendrix. L’anno è il 1970. La storia della musica spesso accompagna con eventi simbolici il passaggio da un’epoca a un’altra, e il duplice gesto di Joplin e Hendrix annuncia la fine dei Sixties dei movimenti e l’inizio degli anni del riflusso.

Nel 1968 in cui gli studenti si riversavano nelle strade, però, Janis era al punto più alto della sua rapida scalata, e l’anno dopo a Woodstock sarebbe figurata tra i grandi nomi del festival. In quei quattro anni seguiti al debutto in grande stile al Monterey Pop nel 1967 e in quei quattro dischi che le avrebbero conferito il ruolo di voce femminile più rappresentativa di quel periodo straordinario – i primi due con la band Big Brother and the Holding Company, il disco eponimo e il secondo Cheap Thrills, e gli altri due da solista, I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again Mama! e Pearl, postumo – quanta meraviglia e quanta energia.

Francesco Chianese

Jefferson Airplane

Quando pensiamo al festival musicale di Woodstock è inevitabile che non venga in mente il profilo di Grace Slick sul palco che canta White Rabbit. I Jefferson Airplane sono i figli di quella San Francisco che Scott McKanzie invitava – cantando – a raggiungere per mettere un fiore nei capelli. Tutti vanno verso Ovest, rapiti dal fremito di un’utopia, ispirati da un grande sogno di pace e amore: l’ovest mitologico è ritrovo e richiamo per beatniks, hippies, poeti e musicisti. Gruppi come The Doors, Grateful Dead, nascono tutti in quella stagione euforica sulla costa occidentale. Quando la cantante Grace Slick si aggiunge ai Jefferson Airplane nel 1965 la sua voce diventa lo strumento perfetto per far uscire fuori il sound psichedelico della band. E così quando esce Surrealistic Pillow nel 1967 siamo già in questo immaginifico altrove, dove il mondo di Alice nel paese delle meraviglie si distorce in una visione acida da LSD.

A Woodstock sul palco ci sono tutti o quasi: Hendrix, la Joplin, i The Doors, un giovanissimo Neil Young con Crosby, Stills e Nash, quella Joan Baez che aveva guidato la marcia di Martin Luther King nel 1963 a Washington insieme al compagno Dylan, un Dylan che ora però appare solo in veste di grande fantasma e assente del festival. Su quel palco la performance dei Jefferson Airplane resta memorabile: immortalata dalla telecamera che seguiva il festival (e su cui Neil Young ebbe da ridire), il live dei Jefferson diventa un grande classico, dove la veste bianca e il capello ribelle della Slick sono il centro intorno a cui si muovono le atmosfere lisergiche create dal folk rock della band. Per un attimo ci perdiamo in quel sogno – che viene dai Sessanta, scavalca i tempi, esplode in pezzi come Somebody to Love, e si rinvigorisce grazie al genio di Marty Balin e Paul Kantner. La stagione in cui a San Francisco tutti vanno a cercare pace, gioia, rivoluzione, sogni, utopie, speranze, e libertà (droga, sesso, e rock), esplode gioiosa nelle canzoni dei Jefferson Airplane, e durante quel festival che proprio l’anno dopo il ’68 si consacra come primo grandioso evento di massa della storia di un’intera generazione.

Giovanna Taverni

Mixtape: 1968, la colonna sonora – realizzato da Simone Fiorucci


Steppenwolf

Il 1968 è l’anno-zero degli Steppenwolf, con il loro omonimo debutto che esce durante la coda lunga dell’inverno inziato nel ’67 ma, nel giro di una mite primavera (sì, quella era un’epoca in cui ancora esistevano le mezze stagioni), fa il botto grazie a un inaspettato FM take over su praticamente tutte le radio della West Coast. Oggi gli Steppenwolf vengono ricordati quando va bene come “quelli di Born To Be Wild”, quando va così così come “quelli di Easy Rider” e nella peggiore delle ipotesi come “quelli delle motociclette”. La cosa buffa è che Born To Be Wild, a voler essere pignoli, non è nemmeno un pezzo degli Steppenwolf a tutti gli effetti. Arriva infatti a firma di un misterioso personaggio che va sotto il nome di Mars Bonfire. Ai tempi Mars Bonfire è ancora Dennis Edmonton, ormai ex-chitarrista degli Sparrows. Pochi mesi prima infatti, John Kay ha appena chiuso la deludente avventura con il suo precedente gruppo, portandosi dietro il tastierista Goldy McJohn e il batterista Jerry Edmonton. Dennis, fratello di quest’ultimo, piuttosto che entrare in una nuova band che si chiama come un romanzo di Hermann Hesse, decide di tentare la carriera solista e sceglie un nome che — a suo dire — «it was kinda mysterious, something you wouldn’t forget».
E invece.

In ogni caso, si lascia bene con gli ex-compagni e, addirittura, prima di salutarli, regala loro l’ultimo pezzo che ha scritto. Si intitola, appunto, Born To Be Wild e non ha niente a che fare con i chopper e le Harley Davidson («it says ‘get your motor running’, but, honestly, that could mean anything»). E invece. Poi è andata che è arrivato Easy Rider, poi è andata che sono arrivati Dennis Hopper e Peter Fonda, le motociclette, l’esistenzialismo su due ruote, tutta una certa bad attitude rivestita di pelle consumata e polverosa e con loro la fine del sogno americano per eccesso di velocità senza casco. Insomma, è andata che — è un lavoro sporco, ma qualcuno lo deve pur fare — anche per il mitico ’68 tocca raccontare uno di quegli aneddoti minori (di cui la storia del rock è ricchissima — pensiamo, che ne so, a Chad Channing e alla sua uscita dai Nirvana subito prima di Nevermind) che parlano di gente che, se proprio non ha fatto la famosa scelta sbagliata al momento sbagliato, diciamo che se la poteva giocare meglio. Gente che aveva un pessimo rapporto con il concetto di sliding door e così ha imparato sulla propria pelle (o quantomeno sul proprio giubbotto di pelle) quanto il Rock sia un tipo sadico e la Storia la Stronza per eccellenza.

Simone Fiorucci

The Beatles

I Beatles entrano nel ’68 stanchi e sfatti, lasciandosi già alle spalle l’incendio di gioventù e rivoluzione che divampava nel resto del mondo, e di cui erano stati tra i maggiori ispiratori. Dagli esordi con Love me do a Rubber Soul, all’esplodere della Beatlemania e alle tournée mondiali con stuoli di ragazze adoranti, scene di isteria e minacce di morte, la parabola musicale di quattro ventenni di Liverpool aveva acceso le immaginazioni e la consapevolezza di vivere il tempo di una sconfinata libertà, lo rendeva possibile. John, Paul, George e Ringo non sbagliano un album: le sperimentazioni di Revolver segnano l’inizio di un nuovo modo di fare musica, ma è in Sgt. Pepper  – psichedelie belle – che esce il 1 giugno del 1967, la consacrazione esplosiva del messaggio di forza creativa e innovatrice, la consegna di un mondo nuovo. Il 25 giugno i Beatles cantano All you need is love, in mondovisione, per 400mila persone: il testo pacifista di John Lennon diventa uno degli inni della Summer of love. Due mesi dopo il manager storico Brian Epstein, viene trovato morto per eccesso di gioventù e mix letali di sostanze.

Nel febbraio del ’68 i quattro partono per l’India in cerca di pace, ma trovano il White Album: canzoni fiorite come naturale frutto dell’esperienza indiana, tante e diverse tra loro, emergono da una sessione nel cottage in campagna di Harrison. Ma registrarle si rivelerà complicato: la maturità artistica raggiunta da ognuno individualmente, stili e personalità diverse confliggono. Il produttore George Martin parte in vacanza, Ringo Starr si allontana per settimane, Yoko Ono è una presenza, ingombrante, fissa in studio, George Harrison consulta Eric Clapton per l’assolo di Whyle My Guitar Gently Weeps. Ne vengono fuori filastrocche indimenticabili come Ob-la-di, Ob-la-da, nonsense e soundsense come Glass Onion e Wild Honey Pie, sfoghi, confessioni, ricordi, amori, divertissement. Ma è tutto un parlarsi –fantasticamente- addosso, il gruppo già non c’è più, è iniziata la fine. In Blackbird compare una donna nera alle prese con la rivendicazione dei diritti civili. In Revolution John Lennon prende le distanze dai movimenti armati e dagli scontri violenti. Il White Album esce nel novembre del ’68 e vince 19 dischi di platino solo negli Stati Uniti. Charles Manson ne ha in mente una personalissima versione.

Simona Ciniglio

Serge Gainsbourg

“Il est interdi d’interdire”, “Vietato vietare” come rivendicavano i movimenti di rivolta del maggio francese. Per Serge Gainsbourg, il più libero e libertino dei cantautori, il ribaltamento delle convenzioni è la sola regola. Da un amore all’altro, pericoloso e decadente, erotico nouvelle vague. Nel 1967 scrive canzoni per Brigitte Bardot: Bonnie e Clyde, Comic Strip. Dall’intesa alla passione il passo è breve. Tre mesi come un incanto. Lei lo sfida: “scrivimi la canzone d’amore più bella del mondo”.

Lui le scrive Je t’aime, moi non plus, un inequivocabile susseguirsi di sospiri, il desiderio incurante scandaloso e lo svelamento di un auto-inganno. Nel Ti amo, neanch’io è concesso e reso semanticamente l’ideale abbandono, incoerente e privo di sensi di colpa al sesso non sentimentale, anche per le donne. Gunter Sachs, miliardario svizzero e marito della Bardot non apprezza e impone il ritiro della registrazione. La canterà Jane Birkin, un anno dopo, e canterà anche 69, année érotique, quell’anno. E tante altre canzoni, dopo. Dall’abisso Bardot al cielo Birkin: l’Amore, rigorosamente libero, erotico, stonato.

Simona Ciniglio

The Rolling Stones 

Il Sessantotto dei Rolling Stones è quello di Beggars Banquet, e di quel grande canto di simpatia verso il demonio a colpi e stilettate di rock. Dopo Aftermath e Between the Buttons, i Rolling Stones sono ormai all’apice del loro successo, tanto che proprio nel ’68 uscirà il film documentario di Jean-Luc Godard Sympathy for the Devil. Se un reduce del maggio francese come il regista Godard sceglie gli Stones non è un caso: il loro sound è portatore di una rivoluzione che va oltre il rock’n’roll, dentro c’è una gioventù urlante, una scarica assassina, il grido di generazioni che vogliono diventare protagoniste. Il rock’n’roll va oltre i confini di quell’industria discografica che si divideva fette di mercato: Beatles e Rolling Stones, ma anche The Animals e The Yardbirds impazzavano sul mercato britannico, almeno tanto quanto dall’altro lato dell’Atlantico il folk rock di Dylan solleticava l’avvenente mercato statunitense. E se da un lato i discografici videro in quel pubblico l’occasione ghiotta di cogliere il sentimento di protesta e contestazione per collezionare vendite, d’altro canto le persone erano realmente fameliche di nuove direzioni.

E così i Rolling Stones trascendono addirittura il loro suono e diventano un vero e proprio way of life: la mitologica lingua che fa il verso ai bravi ragazzi, il rosso del demonio, il nero del giubbotto di pelle. Il rock alla massima potenza ed espressione di se stesso. Quello che poi sarà così cangiante nei decenni, a volte andando a flirtare con il gusto glam o finendo alle borchie. Beggars Banquet in quel Sessantotto è un’apparizione: con quella sua copertina sporca, lurida, che entrerà nell’immaginario di generazioni una dopo l’altra. Mentre a Woodstock esplodeva la filosofia hippie, i Rolling Stones ci liberavano dal peccato originale.

Giovanna Taverni

 

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