Remember There Was Joy | Il nuovo album di Mura Masa

A Ottobre dello scorso anno, in un post su Tumblr in risposta alle critiche sui PrEP+ Party da lui organizzati, Frank Ocean scrive: “sono un artista, è fondamentale per il mio lavoro immaginare realtà che non debbano esistere per forza, ed è una gioia farlo”. I suoi show erano stati pubblicizzati come “un omaggio a ciò che la club culture newyorchese sarebbe potuta essere se il farmaco fosse stato inventato a quell’epoca”: una serata in omaggio a un futuro mai esistito, a uno scenario potenziale, a una “scena” non raccontabile se non attraverso simboli e rimandi perché inconsistente, fuori dai binari del reale e della consequenzialità storica. Serate basate quindi sulla nostalgia di un’idea, sull’idealizzazione di un qualcosa di mai avvenuto.

Il primo EP di Frank Ocean si intitola Nostalgia, Ultra, e durante tutta la sua durata sentiamo clic, fruscii, riavvolgimenti, come se le canzoni fossero registrate su cassetta. In copertina, un’auto degli anni ’80. Il disco successivo, Channel Orange, si apre col suono di Street Fighter (vecchio gioco per PlayStation) che sfuma poi nella prima traccia. Nostalgia di oggetti, di tecnologie passate, magari appartenenti all’infanzia, quel tempo spesso vagheggiato perché più felice, più semplice.

Parlare di Frank Ocean per parlare di Alex Crossan aka Mura Masa e del suo ultimo disco, RYC (Raw Youth Collage) è utile per individuare i poli in cui si muove il suo lavoro. Da un lato abbiamo la nostalgia, evocata dai PrEP+ Party, per un futuro potenziale ambientato nel passato. Ciò che sarebbe potuta essere la scena club è un’idea di futuro come lo si immaginava nel passato, una hauntology nel senso di Mark Fisher, una traccia di un percorso interrotto. Ricreare quell’ambiente temporalmente impossibile perché mai esistito basandosi su un’idea, una proiezione di esso è uno dei meccanismi della nostalgia come processo re-interpretante, di recupero di modelli culturali, estetici, sociali passati che non sono mai stati vissuti.

D’altra parte, abbiamo una nostalgia dell’infanzia e dell’adolescenza come momenti di maggiore serenità, momenti vicini ma lontani: questo tipo di operazione nostalgica si rifà agli oggetti, alle musiche, ai luoghi della propria giovinezza, e genera, nelle parole di Mura Masa, “un’inquietante sensazione verso cose che sembrano familiari, ma è passato tanto tempo, così ora sembrano fantasmi, da un altro mondo”. È interessante anche qui soffermarsi sulla semantica della parola eerie usata nella citazione in inglese: sempre secondo Fisher, “l’inquietante si irradia dalle rovine di mondi perduti”. L’eerie è dunque ciò che rimane di un passato non più interpretabile, nelle parole di Gianni Celati ne Il bazar archelogico: “oggetti segnati da un taglio storico che li rende spaesati o spaesanti, e in cui è proprio la perdita dell’origine a creare il loro interesse di oggetti di riflusso, finora dimenticati”.

In breve, l’eeriness è un meccanismo di fuga dal presente: attraverso questa sensazione si fa esperienza di mondi altri, di mondi immaginari o immaginati, o passati ma non vissuti. Un’altra nozione strettamente legata a questa è la malinconia che, sempre secondo Fisher, è “un’articolazione complessa, un processo estetizzante […] il rifiuto -o l’inabilità- di adattarsi (al presente, NdA)”. La malinconia diventa allora una sensazione con cui rapportarsi al presente, e che consiste nell’immaginare mondi altri, sia che questi appartengano a un vissuto personale ormai dimenticato (l’infanzia, l’adolescenza), sia che questi non siano mai esistiti o perlomeno mai vissuti (la club culture newyorchese o, come vedremo, alcuni momenti della storia della musica nel disco di Mura Masa). La costante è l’impossibilità di rapportarsi al presente, e dunque il rivolgersi a frammenti di passato ormai muti, desemantizzati (d’altronde il titolo del disco, Raw Youth Collage, si rifà alla definizione di Fredric Jameson di pastiche come “discorso in una lingua morta”).

Il primo lavoro, omonimo, di Mura Masa, è stato generalmente descritto come un disco fresco, che faceva dell’interconnessione di generi diversi la sua forza, e per questo suonava pop, contemporaneo, anche futuristico, o perlomeno espressione di un meticciato culturale e sonoro che non poteva che essere interpretato come sign o’ the times. C’erano l’house e l’hip hop, la drum’n’bass e il pop commerciale, suoni calypso e hawaiani: un’escursione colorata e vivace molto convincente, protesa sul presente e che lasciava scorgere un futuro dove il pop potesse uscire dagli studi delle major e aprirsi alle strade, ai club, alle camerette.

In RYC, Mura Masa invece si ritrae dal sipario che aveva aperto per rintanarsi in camera, approfondire la nostalgia come modalità di pensiero e farci su un disco. Raw Youth Collage è una riflessione sulle modalità della nostalgia e al tempo stesso un disco nostalgico su più livelli. Per Alex Crossan, la nostalgia riveste qui un valore terapeutico nei confronti del presente, un luogo dell’anima dove nascondersi da un tempo in cui non ci si sente confortevoli. Data questa premessa, i layer espressi nel disco sono diversi.

Il primo tema, ovviamente, è quello della nostalgia per l’infanzia e l’adolescenza, periodi della vita in cui si potevano provare sensazioni ad oggi irripetibili. Questa è la motivazione intrinseca al disco, e se ne trova traccia dappertutto, fin dalle sue prime parole (“Good times / That place we used to hang out / That thing we used to do / Was it ever even there?”). Tra i vari ospiti del disco, è Clairo a definire questo senso di spaesamento nel tempo in I Don’t Think I Can do This Again (“But was it really that long ago? […] Don’t even know what time it was”, oppure ancora “Missing all the things I wouldn’t have loved”). Dunque nostalgia di un passato che sfugge, anche delle cose che allora sembravano brutte, ma che il filtro del tempo ha reso dolci, consolatorie. Sensazione rafforzata dallo spoken word di a meeting at an oak creek, traccia molto simile al finale di Futura Free, ultimo pezzo di Blond(e). In entrambi un loop strumentale fa da sottofondo a discorsi apparentemente sconnessi, ma in realtà conciliabili. Tutto il pezzo di Mura Masa è il racconto di una disavventura amorosa adolescenziale, una di quelle storielle che ci si vergogna quasi ormai a raccontare, tanto sembravano gravi allora e tanto sembrano ingenue oggi. Il tono è di rimpianto, il pezzo tenta di conservare l’innocenza e la bellezza di quel momento. Tutta la traccia sembra rispondere a una domanda che viene posta all’interno di Futura Free, ovvero “What’s the most amazing thing you’ve ever witnessed?”.

Ancora, musica come modo di preservare se non un ricordo, almeno l’atmosfera di quel ricordo, in modo da avere un’altra possibilità o, come dice Mura Masa stesso, “taste life twice when I think back again”. Non è un caso che in entrambi i pezzi il tappeto musicale sia un loop: secondo un pensiero di Dan Lopatin degli Oneohtrix Point Never riportato su Retromania di Simon Reynolds, esiste la “seduzione del loop, la sua promessa meditativa, il modo in cui suggerisce l’infinito […] profonda malinconia suscitata dalla nostra incapacità di fermare il tempo quanto basta per viverlo”.

Un altro tema del disco è la difficoltà, se non proprio l’impossibilità di adattarsi al mondo presente, se non attraverso appunto la lente della nostalgia. Condizione che risponde alla definizione Fisheriana della malinconia esposta sopra, la troviamo dappertutto, da No Hope Generation (“I need help to buy, I need help to cope / Living in a dream, saccharine / Face away and leave the scene”) a vicarious living anthem (“Oh I just wanna be someone else / Don’t wanna be living here by myself oh no”). Il protagonista non riesce ad adattarsi alla realtà presente, e allora sogna, immagina scappatoie nella sua testa (il titolo del pezzo in cui questa sensazione è espressa al meglio è, non a caso, In my Mind). Ma di che cosa si compone questo presente? Nell’altro spoken word del disco, Deal Wiv It, il rapper slowthai descrive una condizione di immobilità (“I woke up, I slept and woke up again / And this life don’t ever fucking change”) contrapposta a un’ansia insincera di fare, la cosiddetta FOMO (fear of missing out) così pressante nel nostro presente (“Every second you waste is a second closer to the pearly gates / Uh that’s deep innit? It’s deep mate”).

Dunque, la nostalgia come antidoto a un presente invivibile, come unico modo per crescere e “farcela” in questo mondo. A un certo punto, Mura Masa ed Ellie Roswell dei Wolf Alice intonano una sorta di promessa, o di mantra incoraggiante: “Seems like the good time’s over / But nothing’s really over anymore / Just take control”. Prendere il controllo di sé stessi attraverso i propri ricordi, recuperando tutti quei fossili di esperienza e ricostruendoci su la propria storia, il proprio posto in un mondo che sembra inevitabile, schizofrenico, così difficile da sostenere. Questo è il senso del Raw Youth Collage di Crossan: un insieme caotico di memorie agrodolci su cui rifondare un’identità personale altrimenti persa nel presente. Un rifugio dal presente per poi riuscire ad accettarlo, colorandolo coi colori di passati migliori.

L’ultimo livello di nostalgia dell’album, quello più immediatamente riconoscibile, è quello musicale. Nelle stesse parole di Crossan, il punto del disco è creare “finte memorie su musica che suona nostalgica. La gente è nostalgica per periodi che non ha nemmeno vissuto”. L’estetica del disco è dunque, ancora, un collage di stili, sottoculture, scene affondate nel tempo: musica ascoltata durante l’infanzia o ricostruzioni di musica mai ascoltata. Il primo esempio è la jungle/drum’n’bass inglese degli anni ’90, la musica dei rave, a cui Crossan non ha mai partecipato. Ne troviamo esempi nelle batterie di No Hope Generation e In my Mind, o nel ritornello di I Don’t Think I can do This Again. Sempre restando nell’ambito della club culture, troviamo Live Like We’re Dancing, che recupera un’atmosfera French Touch, genere già nostalgico di suo. Altri linguaggi usati nel costruire il collage sono il brit rock (Deal Wiv it è, nelle intenzioni, una Parklife degli anni ’20), o ancora le chitarre indie rock di inizio millennio in Raw Youth Collage e vicarious living anthem (qui ipercompresse a imitare le musichette del GameBoy o del Nintendo). Troviamo anche l’utilizzo del sample, tecnica fantasmatica per eccellenza, che prende un frammento sonoro inciso in un tempo, lo isola e lo riutilizza in un tempo e in un contesto diversi (qui sono i Television a fare la parte dei fantasmi senza voce). Infine, a proposito di voci, tutto il lavoro di modificazione vocale attraverso l’applicazione di filtri, distorsioni: voci mandate al rallentatore o velocizzate, voci con l’autotune, voci a volte incomprensibili, secondo una linea che va dal Kanye di Runaway a quei fantasmi vocali presenti in tutto Blond(e), che ne rendono l’atmosfera così rarefatta, così sacrale, come fosse un cimitero dell’esperienza.

Riappropriarsi della nostalgia per andare avanti: questo dunque il messaggio del disco. D’altronde, capita a tutti di non riuscire più ad ascoltare certe canzoni perché “oddio quanti ricordi”. RYC vuole farci sentire di nuovo quelle canzoni separandole dalla malinconia estrema che prende alla gola, senza per questo mettersele alle spalle. È un disco che ci porta in un limbo, in uno stato di dormiveglia: da un lato sogniamo ancora di avere 16 anni, dall’altro abbiamo la consapevolezza di non poter fare più certe cose, senza necessariamente però perdere quel senso di meraviglia e di stupore con cui abbiamo vissuto quell’epoca. Non si tratta di chiudere un capitolo e crescere, e nemmeno di rimanere impantanati nel passato, quanto piuttosto di creare un mondo alternativo (torniamo alla citazione iniziale) dove il passato inteso come meraviglia, possibilità, significato possa ancora parlare, di tanto in tanto, facendoci vivere meglio. Il disco migliore per questa delicatissima operazione resta, a parere di chi scrive, Blond(e), ma anche in certi passaggi di RYC il miracolo è possibile.

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