Il nuovo album di Mumford & Sons si era annunciato al pubblico con la promessa di quella che sta diventando una vera e propria moda dei tempi, quella della svolta elettronica. Scelta singolare per una band che ha fatto del folk il suo marchio di fabbrica. Marcus Mumford e la sua progenie ci avevano lasciato con un ritmo acustico e addirittura country-folk (I will wait) con Babel (2012, Glassnote/ Island/ Gentlemen of the Road); ora tornano a pubblicare per la stessa etichetta partendo da premesse diverse. Wilder Mind è il tentativo di acchiappare un pubblico diverso grazie al ritmo dei sound dell’elettronica. Persino il modo di cantare di Marcus si adegua ai tempi: Tompkins Square Park cambia il registro delle chitarre, che diventano indie-pop-postpunk-wannabe.
Il primo singolo con cui il nuovo lavoro è stato presentato al pubblico, Believe, soffre di poca incisività. Ci si chiede perché snaturarsi nel suono, rubare qui e là (chitarre agli Strokes, cori a Bon Iver, tanta voglia di scimmiottare i mostri sacri The National) per un mix diabolico che – in sintesi – è senza efficacia. The Wolf è il perfetto singolo pop rock che narra la vera svolta dei Mumford & Sons: una narrazione rock sbiadita, che si disperde tra tutto il resto. Poco resta, e si affretta a sparire. Il disco promette momenti di noia sin dall’inizio, e non tradisce: Broad-Shouldered Beasts supera addirittura le promesse. Cold Arms vuole essere il vecchio rifugio folk, e va un po’ meglio quando la direzione presa è Bonnie Prince Billy.
Messo da parte il banjo, con l’aiuto di Aaron Dessner (The National) e James Ford (Arctic Monkeys, Florence + the Machine) alla produzione, ai M&S non riesce di smarcarsi da un certo genere come ha saputo fare brillantemente Father John Misty nel passaggio dai Fleet Foxes a se stesso.