Mudhoney – Digital Garbage

Mudhoney

Paranoico e psichedelico, viscerale e rumoroso, a tratti anacronistico, il decimo album dei Mudhoney è una porta arrabbiata e sprezzante su una realtà che oggi non c’è più. Quella della musica concreta, del sound sporco e della voce scollata dal ritmo e dalla perfezione, del testo tosto e dei riff pure, caratteristiche oramai perse nei fumi dell’indierock da bravo ragazzo, con su il cravattino dritto prima del gran ballo.

Non è tanto, o solo, una questione di genere, perché in Digital Garbage il frontman Mark Arm, Steve Turner alla chitarra, il bassista Guy Maddison ed il batterista Dan Peters ci hanno messo di tutto è di più. Ci sono i giri blues, la batteria punk, la voce grunge, le atmosfere rock n’roll, gli artifizi hard rock, il basso funk e l’eco garage. È questione di trasmettere quella determinazione di accontentarsi di suonare perfettamente l’imperfezione, prerogativa di chi non se n’è mai fregato di essere qualcuno ma che ha fatto musica solo per il gusto di sentirsi vibrare il pavimento sotto i piedi. Con l’enorme rischio di essere specchio e portavoce di un bel niente.

Tutto sta nel capire quanto si senta la mancanza di questa musica verità. E così nonostante con queste ultime undici tracce, che seguono Vanishing point del 2013 celebrando i trent’anni di carriera, i Mudhoney mostrano il tentativo di narrare e ripudiare il mondo, resta il sapore di un film già visto. Che però rivedresti con piacere. E così riascolti la band d’annata, che grintosa fa un’invettiva contro la modernità, scansata anche in sala prove – e lo si sente dalla registrazione del disco che non si salva da un po’ di monotonia – provando a dare voce a un’America repressa, frustata e impaurita. Trasforma in ansie, i corollari della società attuali, sociali e professionali spargendoli in un album politico, se politico si può intendere sbattere in faccia una fotografia di una società vittima delle sue parole. «Il mio senso dell’humor è molto oscuro, e questi sono tempi oscuri; penso che la situazione stia diventando sempre più cupa», commenta Arm anche se sembra superfluo dirlo, dopo aver ascoltato il disco. Neanche scriverlo o pensarlo. Ogni nota del disco è cupa e, bisogna ripeterlo, paranoica.

Il sipario si alza con Nerve attack e una distorsione che conduce dritti dritti agli anni ’80, passando per un ritornello ficcante a mo’ di mantra. Con il suono monomaniaco, aumenta la sorpresa di Paranoid core, soprattutto per chi ancora non aveva sentito il brano come singolo di Digital Garbage. C’è movimento, c’è energia e intenzione, si susseguono riff infiniti di chitarra a una lista di terrori moderni. Non ci si gira intorno, «Robots and aliens stealing jobsand bringing drugs/ They’ll rape your mom», esordisce Mark per continuare con le teorie cospirative delle destre tra vaccini, scie chimiche, governi, armi, carburanti, musulmani, gay. «I stoke the fire of your paranoid core/ I feed on».

L’allarme sociale è urlato. Come in Please Mr. Gunman. Lo stile è simile, energico e determinato, e si lancia contro un sistema che ha bisogno di farsi sputare in faccia la verità, anche attraverso chitarre che strimpellano per esorcizzare il resto. La stessa paranoia, che in Kill yourself live assume il volto del mondo virtuale ma già dalle prime note si riconosce lo stile grunge. «La gente sembra ricevere conferme dai like che riceve su facebook – ma poi ci sono spazi tipo Facebook Live, dove la gente posta torture e assassinii, o come nel caso di Philando Castile, l’omicidio da parte di un poliziotto». Una raccomandazione nonnesca, che prosegue nella serie di rimandi a episodi successi, un po’ tipo “quando ero giovane io”: la stessa Please Mr Gunman, nella quale Arm urla un «We’d rather die in church!» è ispirata alla sparatoria del 2017 avvenuta in una chiesa, mentre Next Mass Extinction richiama i fatti di Charlottesville.

La seconda metà del disco, che affronta l’ipocrisia religiosa vissuta in America nell’era Trump, nei suoni non riserva sorprese particolari, anche se ha un corpo musicale più coerente. Più introspettivo e minaccioso – come in Night and fog -, più ritmico e punk in 21st Century Pharisees, a tratti sembra di sentire la sgraziata rabbia dei Sex Pistols. Poi, per sua stessa ammissione, Arm regredisce all’epoca pre-Mudhoney con Hey Neanderfuck. Fino al lamento del Messia, che richiama l’ulcera perforante di Kurt Cobain che prima che lo stomaco, rompeva la voce.

E non stupisce ritrovarla nei Mudhoney. Sono coloro che in tempi inaspettati posero le basi al grunge. Se li leggi, lo sai a prescindere, prima di schiacciare play. Poi leggi anche Sub Pop, il mostro a tre teste, la chimera dell’underground indipendente, in cui sono talmente addentrati che Mark ci lavora come magazziniere, e capisci che, no, non puoi proprio sperarci di ritrovare un pizzico di sound gentile dell’indie o l’eleganza ritmica moderna delle vacue speranze. Quello che ti aspetti, e sì lo trovi, è una ricetta di altri tempi che. come le cose molto ben comprovate, non passa mai di moda ma non lo è mai del tutto. Come un trench Burberry o un giradischi. E questo è Digital Garbage, solo il crudo racconto di musica e parole di un presente virtuale che spaventa e che fa venir voglia di rifugiarsi in epoche dove essere semplici e rumorosi era l’unica cosa da fare. Ma nemmeno la musica è una macchina del tempo. Forse un peccato, forse una fortuna.

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