Mr. Robot e i suoi demoni

Hookers. Se scavi bene non si tratta solo di prostitute. Scopri la storia del sergente americano che durante la guerra civile per non fare ammalare i suoi soldati li circondava di donne più o meno sane. Letteralmente attrarre o adescare, nel nostro mondo in cui i linguaggi si confondono è quella pratica di attirare i click, sostituendosi e infiltrandosi nella nostra rete. Come quelle malattie che Fighting Joe Hooker cercava di allontanare. Occasioni vantaggiose che si trasformano in peccati da nascondere a cui nessuna sessione in incognito può opporsi, germi che nel marcio di ciò che siamo hanno trovato la loro dimensione. Non sorprende più, a dire il vero, un personaggio come Elliot Alderson, nuova creatura di Sam Esmail (Comet, Mockingbird). È proprio questo il ritmo ossessionante di tutto Mr. Robot, la certezza che persone così esistano davvero, che ci sia sempre qualcuno dietro quello che accade ma che difficilmente ha a che fare con te e, per questo, non può essere considerato una minaccia. Una generazione di hookers, appunto, che ti presentano la merce ma la mano che c’è dietro no, quella non si vede mai. Animali notturni sotto la luce del giorno, tutto ciò che non viene accettato si nasconde dietro a strati di oscurità, il darknet o le darkroom, ognuno con il proprio scrigno di segreti da custodire gelosamente, unica riserva di un’identità ormai scomparsa fra social network e digitalismi. Elliot è principalmente un collezionista, i suoi cd sono le farfalle incorniciate che accumulandosi perdono il loro colore, se ne rende conto. Raccoglie identità e le punisce dalla retroguardia, forza la mano per poi lasciare che siano gli altri a lanciare il sasso. Il suo metodo di agire e le uniche armi che gli rimangono, sono la rappresentazione di tutto quello che, ormai, non si può più fare davanti agli occhi di qualcuno, fino a esasperare il processo di cui loro stessi fanno parte e che non può che desiderare la propria autodistruzione.

 

La solitudine di Elliot, covata fra risentimento, Queens e morfina, non è poi così diversa dalla nostra, solo più forte e cosciente, un labirinto dalle tante facce in cui non restare fermi è l’unico modo per non trovare mai la via d’uscita. A differenza di Rustin Cohle si impone di credere in qualcosa, anche nella devastazione che vede crescere e crescere attorno. Cuori fragili, come quel lupo di Tyrrel Wllick, nuovo Frank Underwood della finanza ma, al tempo stesso, simbionte  di Elliot. Non c’è tempo, nonostante tutto, per chi si ferma, il destino di chi lo fa è venire preso a pugni per denaro. Patrick Bateman di chi non possiede nulla se non i propri desideri, avere potere e scomparire non hanno più confini così netti. È una narrazione che fa del mescolare linguaggi e riferimenti il suo punto di forza, in cui il citazionismo di Obey e quello che fu Anonymous diventano armi a doppio taglio, capaci di isolare la questione centrale: un uomo può scappare da ogni convenzione ma per cambiarla, prima, deve farne parte.

La città sussurra e stordisce, dalle sale da biliardo di China Town ai luminosi palazzi del potere, ha il ruolo di presentare un mondo al contrario, in cui la verità passa soprattutto nell’underground, dove il segnale è quasi assente e non si è che passeggeri di una destinazione impossibile da deviare. Non c’è spesso linearità e a volte tutto sembra affondare, alcuni particolari tendono a forzarsi minando la realtà che cercano di raccontare, per poi presentare l’inefficacia davanti alla morte di ogni nostro tentativo. Irrimediabilmente, crollano i punti di rifermento, una volta di più, e tutto è da ricostruire. Lo scetticismo ti porta a bruciare le puntate solo per affermare l’opinione che ti sei fatto, come un rebus quotidiano la cui soluzione è meglio non scoprire.

L’evoluzione a cui assistiamo ci lascia tremare un po’, che davvero quella rivoluzione non avvenga e rimanga solo una crescita individuale, senza sapere che è così che vanno le cose. Allora lasciamo l’Elliot delle prime puntate e ricominciamo a conoscerlo, forziamo le sue relazioni personali per capire che cos’è che vuole o, meglio, chi vuole e chi vorremmo noi. Sono i demoni degli altri a diventare interessanti quando i tuoi sai già che faccia possiedono e quelli di Elliot sono così limpidi. A poco serve cercarli negli altri, o pensare che il rapporto con Fight Club sia completo dall’arrivo di Where is my mind. Sono citazioni necessarie che servono a creare uno scenario comune, come una festa in cui essere stati invitati è l’argomento principale per non restare isolati. Perché la necessità è un’altra e fermarsi davanti a così poco rischia di rovinarti tutto.

Il fatto più interessante è che, forse, nemmeno Elliot è il protagonista della sua narrazione. Non lo sono le persone che gli stanno attorno, nemmeno così complesse come potrebbero apparire, e tanto meno lo è lo scontro fra bene e male. Siamo noi, probabilmente, a finire sotto la lente di Elliot, ai suoi occhi che sembrano non chiudersi mai perché dormire significa perdere la partita che si è presto trasformata in sconfitta. FKA Twigs, i Cure, insieme a Sonic Youth e Perfume Genius, sono soltanto il modo per rendere più dolce questa situazione. I colpi di scena fanno il resto, rendono la storia più interessante ma è la calma con cui tutto succede a venirne impreziosita. La fortuna del tasto rewind, o di quello erase, vantaggi che, semplicemente, non possediamo.

Mr. Robot diventa, così, una delle poche testimonianze di una generazione arrabbiata e di un mondo che crolla mentre tutti sognano la pace senza pensare a cosa significherebbe rinunciare alla propria posizione privilegiata, finché qualcuno non fa un balzo nella tua vita e la cambia per sempre, quasi senza accorgersene. È una questione di stagioni, la vita.


 

La serie, ancora inedita in Italia, è stata rinnovata per un’altra stagione già all’uscita del primo episodio pilota. Per vederla qui da noi bisognerà aspettare (forse) dicembre.

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