La musica è troppo forte e non si riesce a parlare / Sono troppi anni che perdi la voce / Per urlare: “Per favore” / Per qualcuno che ha sempre qualcosa da fare.
Sono passati due anni da La fine dei vent’anni, il disco con cui nel 2016, il cantautore e polistrumentista, nato a Pisa da genitori livornesi ma romano d’adozione, aveva con merito saputo guadagnarsi il grande affetto del pubblico e la stima della critica. La fine dei vent’anni, sua prima prova solista, era arrivata al culmine di un percorso musicale che lo aveva visto militare (in veste di paroliere, cantante e batterista) nella band punk-new wave dei Criminal Jokers (con il primo disco prodotto da Appino degli Zen Circus per i quali Motta lavorerà come tecnico del suono), come collaboratore (chitarre, basso, tastiere, batteria e cori) per Nada, Pan del Diavolo e Giovanni Truppi e, non da ultimo, come compositore di numerose colonne sonore (Motta ha frequentato il corso di Composizione per Film presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma).
I vent’anni di Francesco Motta sono passati (ne ha compiuti trentuno lo scorso ottobre) girando l’Italia in tour con oltre cinquanta date, raccogliendo un Premio Tenco come Miglior Opera Prima e con la partecipazione da headliner ad alcuni tra i maggiori festival alternativi italiani: il MI AMI, il Siren Festival di Vasto, lo Sherwood Festival, l’Indiegeno Fest e Il TOdays Festival di Torino. Dopo il tour ecco il silenzioso lavoro sul secondo disco dato alle stampe lo scorso 6 aprile con la prestigiosa Sugar ad affiancare l’etichetta storica Woodworm.
Come per La fine dei vent’anni anche per Vivere o morire, Motta affida la copertina a un suo ritratto, il terzo dopo quella coi Criminal Jokers. Se in Bestie il suo viso era nascosto dalle mani dei suoi compagni di avventura e La fine dei vent’anni lo presentava in un deciso bianco e nero, qui Motta ha scelto una fotografia nelle tonalità del rosso e del nero (ancora di Claudia Pajewski) con il suo volto così particolare, colto in un improvviso movimento.
La scelta, volta a suggerire il movimento che evidentemente c’è stato nella sua vita in questi anni, sembra anche rimandare alla necessità di fotografarsi in corsa, senza fermarsi, per sapere in maniera chiara a che punto ci si trova del proprio percorso. Ascoltare il suo nuovo lavoro diventa così quasi un modo di capire com’è andata a finire tutta quella faccenda dell’essere un po’ come in ritardo, non devi sbagliare strada, non farti del male e trovare parcheggio.
Il disco si apre su Ed è quasi come essere felice, primo singolo a essere stato estratto dall’album alla fine di gennaio e nel quale avevamo già ritrovato alcune delle sue peculiarità: l’uso permeante di ogni possibile elemento percussivo, e insieme, l’abile ricorso alla ripetizione di una frase, di un passaggio come a voler costruire un mantra dal ritmo ossessivo. Fin dai primissimi istanti è però marcata la differenza con le sonorità del disco precedente: tutto resta qui, infatti, avvolto dentro a un’atmosfera rarefatta con un ricorso più forte ai synth e alla programmazione in genere. Ed è quasi come essere felice è un brano ipnotico nel suo percussionismo elettronico, scenario ideale di una giungla urbana notturna in cui la voce fa un passo indietro rimanendo impastata in una tessitura sonora cupa e plumbea. L’ingresso degli strumenti africani (un anno fa Motta è stato in Marocco proprio alla ricerca di nuovi strumenti) la trasformano quasi in una In C di Terry Riley semplificata e naturalmente in chiave pop.
Quello che siamo diventati si apre sulle note della chitarra arpeggiata fino all’ingresso della voce di Francesco. È una storia che sembra quasi raccontare una speranza diversa per la coppia di Abbiamo vinto un’altra guerra. Tornano i temi a lui cari – Finalmente, senza fingere niente / senza dirci dove siamo stati / i tuoi piccoli segreti / e la pazienza di essere raccontati / e finalmente senza spiegare niente / e senza dirci come siamo stati / ci togliamo i vestiti / davanti a tutto quello che siamo diventati – quella richiesta disarmante, ancor più che disperata, di sincerità e di onestà nei rapporti con gli altri e prima ancora con se stessi. Ma è un pezzo meno convincente quando decide di affidare il ritornello a un’ariosità smaccatamente pop.
Vivere o morire, la title track, è il pezzo intorno cui gira evidentemente la poetica dell’intero disco. Motta si affida al timbro più cavernoso della sua voce, così peculiare e interessante. È un racconto autobiografico, quello che gli riesce meglio, e che gli costa tantissimo in termini di scrittura. Non a caso, fin dai tempi de La fine dei vent’anni, Motta aveva rivestito l’allora produttore Riccardo Sinigallia di un ruolo psicologico e maieutico. “Orfano” di Sinigallia, Motta si è affidato, stavolta, alla produzione dell’ingegnere del suono Taketo Gohara (Vinicio Capossela, Brunori Sas, Edda, Verdena, Pierpaolo Capovilla, Marta Sui Tubi) e a Pacifico in una sorta di supervisione ai testi. E proprio Pacifico sembra aver sostituito l’amico e musicista romano nell’azione maieutica di cui Motta ha bisogno soprattutto per la scrittura dei testi, anche se va detto che per il suo secondo disco ha cercato una maggiore indipendenza nella scrittura come anche negli arrangiamenti e nella realizzazione dei brani (infinita è la lista degli strumenti che suona nel disco). Un’autonomia che è stata il riflesso di una ben precisa scelta musicale che potesse essere rappresentativa del suo percorso e dei traguardi raggiunti. Di là dalla musica resta immutato il suo raccontarsi senza protezioni, assumendosi tutto il rischio di mettersi a nudo che aveva contribuito al successo del disco d’esordio.
Livorno è una città strana / piena di gambe nude e personalissime posture / dei silenzi di mia madre / e della mia giustificata distrazione
Mentre Francesco snocciola il suo racconto, la musica si fa, però, troppo esile, e se è vero che Vivere o morire contiene una sorta di rivendicazione personale molto forte – e a volte riesco a stare anche un po’ da solo / smettere di odiare / smettere di bere / avere voglia di cambiare idea continuamente / ho imparato anche a farmi male – ne affianca anche un’altra, stavolta artistica – di cambiare accordi / non me ne frega niente – che al terzo pezzo inizia a farsi preoccupante spia di allarme.
Dominato quasi dal bisogno di sentirsi adulto, cresciuto e in fuga dalle paure della fine dei vent’anni, dall’ossessione dello scorrere del tempo – e tutto quello che non so / serve a scriverti canzoni / forse un po’ troppo / forse troppo poco / per l’età che ho / un perfetto compromesso / per la mia terza vita / fra tutto quello che se ne va e quello che resta – Motta sembra quasi ostinarsi troppo nel voler mostrare a ogni costo la maturità raggiunta che di là dalla vita personale del musicista si trasforma musicalmente in un disco sicuramente molto ben prodotto e ricco di particolari negli arrangiamenti che però risultano a volte un po’ troppo omogenei lungo la sua durata e talvolta troppo rassicuranti. Questa fretta più che urgenza, di raccontarsi diverso da ciò che di sé ha lasciato intravedere nel disco precedente, finisce con l’essere un po’ il limite costante di tutto il lavoro perché stavolta in troppi punti emerge un’ispirazione meno brillante che probabilmente qualche mese in più di lavoro e di attesa avrebbe potuto colmare.
La nostra ultima canzone (secondo singolo estratto) se da un lato è un evidente ritorno alle sonorità del disco precedente, continua a manifestare i segni tangibili di una direzione musicale intrapresa che per troppi aspetti appare più innocua rispetto al modo diretto e al piglio più aggressivo che aveva caratterizzato il folgorante esordio. Perché il discorso sta forse tutto qui, Vivere o morire, che pure fin dal titolo si fa carico di un aut aut esistenziale, sembra porre troppo l’accento soprattutto sul primo termine che va da sé, è condizione perfetta per la dimensione privata ma lo è molto meno invece sul piano artistico lì dove sembra voler ridursi a un maggiore dominio sui suoni, come se fossimo alla presenza di un ripiegamento su se stessi, un modo più intimo e sussurrato di raccontarsi, meno urlato, più controllato e, in definitiva, probabilmente anche più maturo, a costo però della perdita di quello slancio così forte che era la cifra de La fine dei vent’anni.
Chissà dove sarai continua su quest’atteggiamento ma risulta più brillante tanto negli arrangiamenti che nella voce; soprattutto nelle strofe, lasciando invece al ritornello strumentale il ruolo di un ponte leggero tra quest’ultime. La storia e, di conseguenza, il testo invece funzionano a meraviglia con il ricordo di una relazione ormai alle spalle e uno sguardo quasi distaccato sui tormenti del passato in un dialogo a due voci – M’immaginavi diversa / eppure sono contenta / in equilibrio perfetto fra tutto quello che ho perso / e quello che ho scelto / e anche quello che ho sbagliato adesso tienilo per te / che stai iniziando già a dimenticare.
Manca fino a questo punto proprio quell’urgenza dei vent’anni: nella musica, negli arrangiamenti, nell’approccio anche al canto che qui è sì abile a sfruttare il bel timbro ma lascia certamente sullo sfondo quella sfrontatezza vocale, quell’assenza di controllo che tanto erano presenti in brani come Roma stasera e Sei bella davvero.
Per amore e basta è invece una piacevole sorpresa e un grandissimo pezzo capace di far decollare improvvisamente un album che ha riservato i migliori pezzi proprio per la seconda parte. Qui Motta riesce a mescolare fin dall’intro trip hop, acid jazz, bossa nova, lasciando che il pezzo venga impreziosito sul finale dalla tromba di Mauro Ottolini (Kenny Wheeler, Carla Bley, Steve Swallow, Maria Schneider) in una splendida coda insieme alle percussioni che attraversano il brano.
Per la prima volta, tenuta insieme dal dialogo tra chitarra e percussioni con gli archi a entrare per brevi istanti ad alleggerire la melodia è una dichiarazione d’amore a Carolina Crescentini (ai cori in E poi ci pensi un po’) e alla loro nuova vita insieme – E se non so da dove cominciare / tu non chiedermi come andrà a finire / (come andrà a finire) / e ti ricordi la prima volta? / le libertà stravolte / tu, con due bottiglie di vino / fino alle sette sdraiati su un gradino / non c’era niente di male / potevamo fermarci / dovevamo sbagliare – e rappresenta anche il legame col passato grazie alla collaborazione ancora con Sinigallia in fase di scrittura finale.
E poi ci pensi un po’ entra suadente con le percussioni sudamericane affidate al grande percussionista brasiliano Mauro Refosco (Red Hot Chili Peppers, Atoms for Peace, David Byrne e i suoi Forro in the dark alla corte di John Zorn) vero valore aggiunto dell’intero lavoro, capace di portare tutta la sua esperienza e la sua cultura musicale dentro a un tessuto diverso. È forse il pezzo più diretto, un dialogo con se stesso, un guardarsi da un’altra prospettiva e la rivendicazione di una scelta, di un modo nuovo di stare al mondo che continua a essere il leitmotiv dei temi che attraversano l’intero disco – E per la prima volta / riesci a metterti da parte / e a non pensare / solo / a te / e per la prima volta / si è risolto quasi tutto / e torni a casa / e anche se piove / è primavera.
La conclusione dopo nemmeno mezz’ora di musica è affidata alle corde della chitarra che disegnano nell’aria una filastrocca sotto forma di valzer mediterraneo. Mi parli di te è un brano dolcissimo, dedica al padre, chiamato qui babbo con il linguaggio quotidiano familiare, in cui la musica accompagna come un carillon la delicatezza del bellissimo e commovente testo – E per un attimo / sembri contento / e in un abbraccio / scopriamo le carte / babbo, siamo ancora in tempo. È il Motta più onesto e sincero che ci si possa aspettare, quello che tante, tantissime volte parla della sua famiglia e qui, in un finale secco e asciutto che segue la coda degli archi che si rincorrono in un cielo d’infanzia, ha il coraggio da figlio di sentire forte il capovolgimento dei ruoli – E adesso faccio il mostro / e tu il bambino.
Vivere o morire è il disco che segna il nuovo corso delle scelte artistiche di Motta e che riflettono evidentemente il suo percorso, prima ancora che di musicista e di autore, di uomo; altrettanto evidente è che in questa scelta precisa Francesco Motta riesce a muoversi totalmente a proprio agio.
Eppure la sua è una scelta che non ci sentiamo di avallare e non certo per una mera questione di gusti personali ma perché la nuova strada intrapresa sembra lasciar accantonate alcune tra le sue migliori qualità (quel senso d’immediatezza, di freschezza, di fragilità e strafottenza mescolate a un tempo, quello stare dentro la musica in maniera diretta e immediata senza la necessità di troppi filtri) e sembra, soprattutto, figlia di una sorta di malinteso e cioè che la maturità artistica debba necessariamente passare per un ammorbidimento dei toni e per una smussatura degli angoli più aspri ma anche più preziosi.
Non dunque certamente disco della maturità, Vivere o morire, è piuttosto disco di transito, di passaggio, di movimento, un lavoro attraverso cui Motta prova a osservare il taglio del nuovo abito con cui ha deciso di vestire le sue riflessioni, le sue confessioni.
Naturalmente va anche aggiunto che Motta – che ha certamente dentro di sé i tratti del cantautore – è anche e soprattutto un eccezionale performer capace di traghettare sul palco i propri brani in territori molto più selvaggi e impervi, meno rassicuranti e più oltraggiosi e il prossimo tour sarà, dunque, il vero banco di prova per la tenuta di brani che ci hanno convinto solo in parte.