Undici racconti, dieci madri e un unico filo rosso a collegarle tutte. Un filo rosso teso e resistente che Romana Petri usa per farci dialogare con donne distanti da noi centinaia e centinaia di anni o anche vicine nel tempo ma lontane perché ad abitare luoghi mentali siderali. Mostruosa maternità – Giulio Perrone editore 2022, è un’antologia dolorosissima e incredibilmente attenta, è una raccolta di racconti che, con un’onestà meravigliosa e insieme tremendamente dolorosa, narra i momenti in cui la solitudine delle madri si tramuta in un dolore così forte e accecante da trasformarsi in rabbia o follia.
Leggere Romana Petri significa spogliarsi d’ogni pregiudizio, disarmo di cui abbiamo tutti bisogno, e addentrarsi in una terra oscura e assai pericolosa, senza però avere mai il timore di perdersi: con noi c’è la scrittura di un’autrice eccezionale.
Perché hai deciso di tracciare un arco temporale tanto ampio, in questa tua antologia?
Perché credo che la maternità mostruosa non sia cosa nuova, ma che piuttosto sia sempre esistita. La differenza con il passato è che oggi i media ci raccontano tutto, ogni piccolo dettaglio, e questo penso che in qualche modo ci faccia avere una percezione fallace del fenomeno.
Pensi sia un male, quindi, che la narrazione dei media sia stata impostata così com’è?
Penso che certi dettagli non vadano divulgati, non in questa maniera. Prendi, ad esempio, quel periodo tremendo in cui venivano lanciati i sassi dai cavalcavia: d’un tratto pareva una sorta di moda perversa e credo che l’esplosione del fenomeno sia stato causato dalla narrazione che n’è stata fatta.
Torniamo alla maternità mostruosa.
Semplicemente è qualcosa che nasce nel mettere al mondo un figlio, per questo sono convinta che sia un fatto risalente a tempi antichissimi. Mettere al mondo un figlio è una cosa comune a molte donne, sì, ma per ognuna, poi, è sempre la grande epopea sconosciuta.
E perché hai scelto la forma del racconto?
Avessi scritto un romanzo, avrei avuto una sola protagonista e avrei potuto raccontare una sola storia, mentre a me interessava spaziare tra le tante forme di maternità mostruosa. Per narrare il lato oscuro del sentimento materno penso se ne debbano vedere le diverse forme e sfaccettature, penso che se ne debbano indagare le cause profonde, che sono spesso diverse: solitudine, angoscia, invidia.
Da cosa possono scaturire sentimenti del genere?
Da tantissimi fattori, ogni situazione, in fondo, è a sé. Il punto è che la maternità è molto complessa. Mettere al mondo un figlio, pur con le migliori intenzioni, significa comunque accogliere in casa tua un estraneo, una persona che conosci e che, in effetti, lì comanda, fa il bello e il cattivo tempo. Allora puoi muoverti in due direzioni: o hai un animo giocoso e questa avventura ti diverte o senti come una costrizione, senti come se ti venissero posti dei vincoli.
Che intendi?
Che può pure capitare che tu ti senta esclusa, in qualche modo. Pensa alle parole di Elisabetta Franchi, la manager che assume solo donne anta: si tratta chiaramente di un modo di escludere alcune donne in funzione delle loro scelte di vita. Chiaro, è una cosa tremenda e profondamente sbagliata, ma può succedere che, da madre, questo non lo si veda e ci si senta quasi in difetto. Quel che succede, quindi, è che sia in un senso sia in un altro le donne vengano giudicate: desideri dei figli rischiando di essere penalizzata sul lavoro, non desideri dei figli rischiando di essere giudicata come una donna a metà. La raccolta si apre e chiude con dei racconti con protagonista la stessa personaggia: Annamaria Franzoni.
Perché proprio lei?
Perché è stato un caso pazzesco, per certi aspetti unico.
Cosa ti ha colpita di più?
Che non si sia mai dichiarata colpevole. Alla fine, la maggior parte delle donne che hanno commesso atti atroci ha confessato, pure quelle che hanno nascosto la realtà per molto tempo. Hanno raccontato ciò che era successo, cosa avevano fatto. Lei no – pur essendo stata condannata e, probabilmente, pur essendo colpevole -, non ha mai confessato. Ecco, questo mi fa pensare a quanto un gesto del genere possa essere rielaborato dalla mente di chi lo ha commesso. Il lavorio che la mente opera è tale che la persona, in questo caso Franzoni, rimodella sia i ricordi sia la realtà che la circonda.
Pensi che Franzoni sia convinta di non averlo fatto, di non aver ucciso suo figlio?
Penso sia una persona fortemente turbata, fragile. Sul resto sarebbe difficile esprimere un giudizio. E poi, non dimentichiamoci che era lei a dare del mostro a qualcun altro: al figlio. Diceva che era strano, quel povero bambino, che aveva qualcosa d’inquietante. Tant’è che ne ha fatto subito un altro. E non dimentichiamoci pure che Franzoni ha una famiglia estremamente protettiva, famiglia che credo abbia nascosto verità disdicevoli.
Paccagnini, recensendo Mostruosa maternità su La lettura, parla di un’intimità addolorata delle donne, cosa che, in effetti, c’è. Credi sia qualcosa di ancestrale, insito nelle donne?
Sì, secondo me sì, tant’è che i miei racconti, come dicevamo all’inizio, abbracciano un arco temporale molto ampio. I canoni imposti dalla società – la pretesa che le donne rimangano sempre belle, giovani, fresche – sono un dolore che ci accomuna e che può pure far sentire a disagio. Ecco, forse con questa sorta di intimità addolorata delle donne ci si può riferire anche a questo.
Riesci a localizzare un momento specifico della tua vita in cui senti di aver fatto esperienza del senso di disagio di cui stiamo parlando? O è piuttosto una nota che percorre l’esistenza tutta?
Non saprei risponderti, ma se posso tornare ai miei racconti ti dico che mi sono inquietata scrivendoli proprio perché il senso di disagio di cui stiamo parlando ora nella vita delle mie personagge era molto, molto presente e non in situazioni specifiche, ma nel corso della loro vita.
Sull’istinto genitoriale, invece, cosa mi dici?
Che esiste, ma può albergare in una persona come può pure non essere presente. Voglio dire, secondo me non è necessariamente detto che un individuo nasca con l’istinto genitoriale. Una donna non deve sentirsi incompleta perché non desidera o non ha figli. Spesso si fanno figli perché arriva un momento cruciale in cui ci si dice: ora o mai più. Facendo così, però, il rischio di pentirsi di una scelta tanto grande è dietro l’angolo. Piuttosto, credo sia meglio aspettare di desiderarlo davvero, essere madre, per poi eventualmente optare per una scelta diversa – l’adozione, ad esempio: credo che di differenze tra la genitorialità biologica e quella adottiva non ne esistano. Un figlio non deve solo essere amato, deve soprattutto sentirsi amato e se non si è pronti, in tal senso, il rischio è di mettere al mondo un bambino destinato a una grande dose d’infelicità.
Le madri tue personagge potrebbero essere inserite nel novero dei mostri, ma chi sono i mostri?
Sono persone, né più né meno che persone. Quando mi viene in mente la parola mostro, penso subito ad Angelo Izzo, il mostro del Circeo, e credo che lui sia utile a operare una divisione, a proposito dei mostri. Esistono persone che nascono così, come avessero qualcosa di connaturato che li porterà a far del male – come esistono persone che nascono con le braccia storte, i capelli di un colore o di un altro: sono individui che nascono con una coazione a ripetere la morte altrui. Ed esistono persone che non hanno la capacità di fermare determinati momenti di ferocia, violenza incontenibile – spesso scaturita dal mondo stesso, è come se fosse una reazione la loro; per carità, mostruosa e deplorevole.
Reazione al mondo?
Un momento obnubilato che nasce da qualcosa di cui si è fatto esperienza e che non si riesce a capire o elaborare fin in fondo o nel modo giusto. Quando ti cala quella cortina ma ormai sei dentro, non sei più in grado di tirarti fuori da una situazione. Ecco, in quel caso non c’è alcunché di connaturato, ma è solo un momento di follia.
C’è un denominatore comune, secondo te?
La solitudine. Genera smarrimento, stordimento, confusione. Genera vuoti di memoria. Incapacità di risolvere problemi pratici. Dovremmo avere tutti qualcuno accanto – un amico, un parente. Qualcuno che si prenda cura di noi.
In cosa riconosci la solitudine? Anzi, meglio: dov’è oggi la solitudine?
Ovunque.
Penso al banchiere Klaus Kleist, uno degli uomini – manipolatori, egoisti, mitomani – della tua raccolta. E mi chiedo: cosa spinge ad affezionarsi tanto a tipi umani del genere?
Nulla, semplicemente si tratta di uomini capaci di soggiogare la mente delle donne che hanno davanti, donne magari predisposte a delle fragilità, donne in cerca di una sorta di tranquillità che, vedendo in questi uomini una forza che loro credono di non avere, pensano di poter trovare con loro. Come dici tu stesso: sono uomini manipolatori, questi.
Non c’è perdono nei tuoi racconti. Perché?
Non trovava posto nelle vite che volevo raccontare. C’è la pietas di chi ha scritto i racconti, questo sì e ne sono certa e spero si senta, ma non c’è perdono, no.
Che rapporto hai con queste donne, con queste tue personagge?
Chi scrive deve anche un po’ immedesimarsi nei suoi protagonisti, naturalmente, e per un certo tempo sono stata mostruosa pure io – per la scrittura dei racconti, intendo. Ho cercato di assecondare questo tratto ingannevole, sono entrata nella terra del demonio ma poi, a fine stesura, ne sono uscita. E penso che la differenza tra me e le mie protagoniste risieda principalmente in questo: ho traversato la terra del demonio, sì, ma poi ne sono uscita, camminando sulle mie gambe, mentre loro no, loro lì dentro ci si sono perse, e forse per sempre. Qualcosa di simile lo diceva Flannery O’Connor.
In effetti, credo che autori e autrici, attraverso la scrittura, abbiano come un’entrata di servizio per la terra del demonio di cui parliamo – e che abbiano pure un’uscita ben segnalata, facile da raggiungere. Da scrittore, quando entro in questa terra io mi diverto: fare sulla pagina ciò che nella vita non fare mai, in qualche modo, mi fa star bene. Per te mi pare di capire che non è così che funziona, invece. O mi sbaglio?
Sì e no. L’operazione di cui parli c’è, esiste, e ha un potere salvifico – tant’è che di scrittori assassini ce ne sono pochi, credo. Ho scritto molti libri in cui la violenza, fisica e psicologica, era tanto presente e, in effetti, era liberatorio. Il punto, però, è che io sono una donna e una madre e i punti di contatto, nei desideri e nelle paure, con le mie protagoniste erano tanti.
Torniamo a te. Senti mai il dovere di aderire a un modello materno?
No. La maternità è una cosa unica, per ogni donna è un’avventura diversa oltre che un lavoro che ha a che vedere sia con la quotidianità, sia con la vita nel senso più ampio.
Però che esista un modello è innegabile.
Certo, è così, soprattutto in Italia. La madre che accudisce, che difende, che nobilita il figlio è, specie nel nostro Paese, il modello genitoriale femminile a cui si sono riferite le donne dal dopoguerra a oggi – se non prima. Così facendo però si possono pure generare dei mostri. Pensa a quante volte capita di vedere ai Tg o nei salotti tivù madri che difendono i figli, che hanno ucciso la compagna, la moglie o una donna: spesso finisco per incolpare la vittima perché era una puttana o lo aveva abbandonato o lo aveva portato all’esaurimento con le sue richieste e capricci. Il rapporto madre figlio dev’essere quello tra due individui, ma spesso ciò che si vede è come una sorta di ammasso inestricabile.
C’è un racconto a cui sei particolarmente affezionata?
Una finestra sulla Prenestina. Mi ha fatto soffrire tantissimo, forse perché, in fondo, riassume tutti i temi che volevo indagare in questa raccolta: solitudine, senso d’inadeguatezza, gelosia, invidia.
Come ti ha aiutata questo libro?
Non lo so, se mi ha aiutata. In generale, non ho mai capito se i libri aiutino o se facciano male. Credo, però, mi abbia fatto vedere qualcosa che non conoscevo ma sentivo esistesse, e qui tornerei alla terra del demonio: scrivere questo libro me l’ha fatta attraversare, e con me porto ciò che ho visto.